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Un omicidio di mafia eseguito da sicari non mafiosi. E’ questa la conclusione, riguardante il delitto dell’ex presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), fratello dell’attuale presidente della Repubblica, a cui era giunto, indagando, Giovanni Falcone. Una rivelazione che il giudice, due anni prima della sua morte, aveva affidato alla Commissione parlamentare antimafia, nel corso di un’audizione fiume datata 22 giugno 1990. Parole inquietanti, che tirano in ballo l’eversione nera, fino ad oggi rimaste secretate dentro una carpetta custodita in una cassaforte di San Macuto. E ora di libera consultazione per decisione dello stesso organismo parlamentare guidato da Nicola Morra.
“Nel corso di faticose istruttorie – disse Falcone rispondendo ai parlamentari dell’Antimafia – abbiamo trovato tutta una serie di riscontri che ci hanno portato a dover valutare il fatto che queste risultanze probatorie fossero conciliabili con una matrice e quindi con dei mandanti sicuramente all’interno della mafia, oltreché ad altri mandanti evidentemente esterni”. Il giudice, in particolare, sembra ritenere attendibili le parole dell’ex terrorista nero, Cristiano Fioravanti che accusò dell’assassinio Mattarella suo fratello, Valerio, detto Giusva, poi processato e assolto per il delitto dopo che Tommaso Buscetta ne mise in dubbio le responsabilità. ...continua a leggere "Per Falcone ad ordinare di uccidere Piersanti Mattarella fu Cosa nostra ma i sicari non erano mafiosi"

Non si parla più di mafia. Eppure Cosa nostra, l’organizzazione criminale siciliana in guerra con lo Stato e le regole da oltre un secolo, è quella di sempre, almeno secondo quanto scrive nell’ultima relazione al Parlamento la Direzione investigativa antimafia (leggi). E cioè: imprevedibile, pericolosa e alla ricerca di nuovi equilibri. Il problema, dunque, acclarato che la minaccia non è mai scemata, è forse la sua scomparsa dalle pagine di gran parte dei quotidiani nazionali e dai palinsesti delle tv che fanno informazione, per non parlare del dibattito politico. A ricordarcelo, all’indomani di un episodio grave e che fa molto riflettere, è stato un giornalista di Repubblica, Salvo Palazzolo, una delle firme palermitane in trincea da anni alla ricerca, citando il titolo di un suo libro, dei “pezzi mancanti”. Lo ha fatto dopo aver subìto, lo scorso 13 settembre (leggi), una perquisizione, in casa e in redazione, il controllo del suo computer personale e il sequestro del suo cellulare, alla faccia della tutela delle fonti e del diritto di cronaca. Palazzolo, reo di aver rivelato la chiusura dell'indagine sul depistaggio Scarantino (l’inchiesta che ha riscritto daccapo la storia della strage di via D’Amelio in cui fu trucidato Paolo Borsellino e la sua scorta - leggi), è indagato per rivelazione di notizie, cioè la chiusura dell'indagine a carico di tre poliziotti sotto accusa per il colossale depistaggio costruito imboccando il pentito Vincenzo Scarantino (l’udienza davanti al gup è iniziata il 20 settembre - leggi). ...continua a leggere "A Palermo il problema è il traffico. Spunti per non dimenticare che la mafia esiste ancora"

Giovanni Falcone
Giovanni Falcone

Tasselli mancanti. Misteri mai risolti. Testimoni che chiedono la verità, anche a distanza di 23 anni. Dopo la strage di Capaci - l'attentato del 23 maggio 1992 in cui persero la vita il magistrato anti mafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro - Giuseppe Ayala, amico e collega di Falcone, ha più volte ripetuto queste parole: «Una sera, quando ancora Giovanni era al Palazzo di giustizia di Palermo, andai nella sua stanza. Mi disse: 'Prendi un sorso di whisky, devo terminare una cosa'. Quando finì di scrivere sul computer portatile mi guardò: 'Sto annotando tutto quello che mi sta succedendo per ora in ufficio. Qualunque cosa dovesse succedere, tu sai che è tutto scritto'». Ha più volte commentato, incredulo, la circostanza che nei computer di Falcone non fu trovato nessun diario.
Sono «i pezzi mancanti»: così li ha definiti il giornalista palermitano Salvo Palazzolo, che qualche anno fa ha dedicato un libro a tutte le prove che mancano nelle inchieste su Cosa nostra e la stagione della stragi.
Falcone era un grande appassionato di informatica. Di più: era stato un pioniere, perché aveva capito che per gestire e analizzare grandi quantità di dati non serviva solo il fiuto investigativo, ma anche la tecnologia, i database, i fogli elettronici. Aveva computer ovunque: a casa e in ufficio. Così come amava portare con sé alcuni databank, della Casio e della Sharp, dove annotava minuziosamente informazioni, appuntamenti, pensieri, appunti investigativi. ...continua a leggere "La strage di Capaci, «i pezzi mancanti» nei pc di Falcone"

Joe PetrosinoCi sono voluti 105 anni per dare un volto e un nome al sicario di Cosa nostra che uccise, a Palermo, il tenente Giuseppe Petrosino, detto Joe, lo sbirro italo-americano che voleva debellare la mafia oltreoceano, assassinato il 12 marzo 1909 con quattro colpi di revolver mentre attendeva il tram a piazza Marina. A svelare i retroscena di quel delitto, è stato un dialogo captato da una microspia nell'ambito dell'inchiesta Apocalisse che ha portato all'arresto di 91 tra capi e gregari di tre storici mandamenti mafiosi, Resuttana, Tommaso Natale e San Lorenzo.
La frase che ha risolto il caso Petrosino è stata pronunciata da Domenico Palazzotto, uno dei mafiosi arrestati, che si vantava delle tradizioni centenarie di appartenenza a Cosa nostra della sua famiglia. «Lo zio di mio padre si chiamava Paolo Palazzotto, ha fatto l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino, per conto di Cascio Ferro». Dunque a uccidere Petrosino, che era arrivato a Palermo da New York per debellare l’organizzazione criminale Mano Nera, fu Paolo Palazzotto, il primo sospettato di quell'omicidio, arrestato e poi assolto per insufficienza di prove.
Quello del coraggioso poliziotto italo-americano fu uno dei primi delitti "eccellenti" compiuti in Sicilia. Petrosino era un antesignano della lotta senza quartiere alla criminalità mafiosa. Fu il primo a capire che per sconfiggere la Mano nera e la mafia siciliana era necessario arrivare in cima all'organizzazione e tagliare i collegamenti con i boss che risiedevano ancora in Sicilia.
Decapitata la cupola, sarebbe stato possibile in futuro annientare anche le metastasi che infestavano il Nuovo Continente. Per fare questo bisognava creare un pool antimafia, un nucleo ristretto di detective, senza l'obbligo della divisa, con l'unico obiettivo di indagare sui "pezzi da novanta". Il tenente venuto da New York per colpire la piovra nella sua capitale aveva capito tutto questo alla fine dell'Ottocento, anticipando di un secolo il lavoro che portarono a termine Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Lo inviò in Italia il presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt, per creare una prima rete di intelligence in grado di scoprire i collegamenti tra i clan americani e quelli del Sud d'Italia. Ma Petrosino ebbe anche un'altra importante intuizione: costruire un grande archivio comune per "mappare" la geografia criminale, tenendo conto anche del fatto che la Mano Nera si basava su una organizzazione verticistica e piramidale, proprio come la mafia e la camorra.
Giuseppe Petrosino era nato nel 1860 a Padula, in provincia di Salerno, prima che il padre, un sarto, si trasferisse negli Stati Uniti. Era un cittadino americano che amava fortemente l'Italia, un Paese che ebbe modo di visitare soltanto qualche mese prima di essere ucciso, restandone tuttavia fortemente deluso.
Il suo assassinio è rimasto impunito per 105 anni. Fino ad oggi non si conoscevano né mandanti né esecutori. Don Vito Cascio Ferro, il boss di Bisacquino che Petrosino conosceva bene, era l'unico che poteva confessare il nome di chi, quella sera di marzo, sparò alle spalle dell'ufficiale. Ma lo stesso don Vito, oggi chiamato in causa da un discendente del killer che uccise Joe, morì abbandonato, senza acqua e cibo, nel carcere di Pozzuoli.

di Fabrizio Colarieti