Riemerge dagli annali ingialliti, grazie alle parole di un "infame" della banda della Magliana, una storia che in Sabina in molti ricorderanno e che, altri ancora, preferirebbero saperla definitivamente archiviata. Sono gli 8 miliardi del vecchio conio, a dirla con le parole di Bonolis, concessi nei primi anni '90, attraverso un fido, dalla Cassa di risparmio di Rieti al boss della banda della Magliana Enrico Nicoletti. Una storia chiacchierata e risaputa: roba da archeologia giudiziaria. Una muffa finita anche nelle pagine di alcune relazione della Commissione parlamentare antimafia. Carte ingiallite sì, ma ancora oggi rintracciabili su Internet, come quelle scritte nel corso di un decennio di indagini patrimoniali condotte dalla Dia e dalla Finanza. Così la banca reatina si è ritrovata accusata, anche in ambito parlamentare, di compiere strane attività finanziarie e movimenti in "odor di mafia" che andavano dal riciclaggio di danaro sporco all'erogazione non motivata di fidi a persone "sospette di far parte di organizzazione criminali". Nicoletti, si saprà poi, era una di queste: un "cliente", certamente non uno qualunque, a cui la Cassa di risparmio concesse tramite l'agenzia numero uno - quella che si trova tuttora a piazza Montecitorio a Roma - un fido di 8 miliardi, che nel '90 non erano bruscolini. Glielo concesse trattandolo con i guanti bianchi, nonostante il boss fosse stato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e sottoposto a misure di prevenzione. Difficile scambiare il cassiere di una banda di criminali per un affidabile imprenditore, ma così andò, probabilmente alla direzione della banca non leggevano i giornali. Oggi questa storia è tornata a rivivere sulle colonne di Repubblica (edizione del 14 febbraio scorso), vent'anni dopo, con un'inchiesta dal titolo "Finanza sporca e omicidi, torna la banda della Magliana" a firma di Carlo Bonini che ripercorre la carriera di Nicoletti, della sua banda e delle sue misteriose fortune, tornando anche sul quel fido concesso senza batter ciglio. Le novità arrivano dalle parole di un pentito, Antonio Mancini, un altro della batteria criminale, uno di quelli "seri" che terrorizzò la Capitale per un ventennio. "Nino l'accattone", così è soprannominato Mancini, agli occhi di chi non lo conosce potrebbe sembrare uno uscito direttamente dalle pagine di "Romanzo criminale" - come "il Freddo" o "Libano" - invece è uno in carne e ossa, ed è anche l'unico che parla. Parla, l'''infame'', del sequestro di Emanuela Orlandi, la quindicenne cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno '83, e parla anche di un fiume di danari sporchi (1 miliardo di euro solo quelli riconducibili a Nicoletti). Una storia, che riannodando i fili, arriva ai giorni nostri e finisce dritta dritta agli affari, più recenti, del "furbetto" Danilo Coppola.
di Fabrizio Colarieti per Il Messaggero [articolo originale]