Potrebbero essere non più di dieci casi, parte dei quali ormai noti. Parliamo di segreti di Stato: dal Piano Solo del ’64 al sequestro dell’Imam di Milano Abu Omar del 2003. Una manciata di fattacci in cui l’esecutivo ha deciso di classificare, con il massimo grado di riservatezza, documenti, luoghi, circostanze e protagonisti su cui la magistratura aveva avviato delle indagini. Dal 2011, con il decreto contenente le disposizioni per la tutela amministrativa del segreto, esiste anche un inventario degli omissis di Stato presso l’Ufficio centrale per la segretezza. Ed è lì che sono conservati i fascicoli top secret della nostra Repubblica. L’ultimo vincolo lo ha imposto il premier Mario Monti, rinnovando, per la terza volta consecutiva, dopo Berlusconi e Prodi, il segreto sulla vicenda Abu Omar. A pagarne le conseguenze è la Corte d’Appello di Milano dove è di nuovo sotto processo l’ex numero due del Sismi, Marco Mancini, imputato, insieme ad altri 007 dell'intelligence militare, per il pasticcio del sequestro dell’Imam della moschea di viale Jenner, compiuto dalla Cia il 17 febbraio 2003.
LA LISTA DEGLI OMISSIS. L’ultima scansione dei segreti ancora in vita l’ha compiuta il Comitato di controllo sull'attività dei Servizi segreti, sotto la presidenza di Massimo D’Alema. Nella relazione trasmessa al Parlamento il 25 gennaio scorso il Copasir conferma, infatti, di aver ricevuto da Palazzo Chigi la lista dei segreti di Stato tuttora pendenti, «per tre dei quali, trascorso il termine di quindici anni, è stata disposta la proroga fino a trent'anni». Sono tre vicende diventate segrete intorno al '97 e, perciò, per sapere di cosa si tratta sarà necessario attendere il 2027. La relazione contiene, inoltre, anche un elenco di segreti di Stato apposti da Palazzo Chigi o da altre autorità ministeriali «della cui esistenza il Comitato parlamentare è venuto a conoscenza per la prima volta in questa occasione». ...continua a leggere "La Repubblica dei segreti"
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L’uomo del Colle dice no
Era scontato che la decisione di Giorgio Napolitano di sollevare il conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale avrebbe ravvivato il fuoco delle polemiche. E anche al Colle non potevano non esserne consapevoli. «Può darsi che la mia scelta non risulti comoda per l’applauso e mi esponga a speculazioni miserrime», aveva del resto ammesso proprio il capo dello Stato. Sebbene le telefonate della discordia, tra il Presidente della Repubblica e Nicola Mancino, restino segretissime. Le altre, invece, quelle intercettate dai magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa tra Stato e mafia, tra l’ex presidente del Senato e il consigliere giuridico del Presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, sono state pubblicate. Da un lato, per il Quirinale, la sola idea che la prima carica dello Stato fosse lambita dal minimo sospetto in un momento tanto delicato per il Paese, nonostante la stessa procura di Palermo abbia più volte ribadito l’irrilevanza penale di quelle conversazioni, era inaccettabile. Ma per le stesse ragioni, dalla crisi economica alle pericolose oscillazioni di uno spread di nuovo fuori controllo, ad appena quattro mesi dal semestre bianco, con il capo dello Stato principale sponsor del governo Monti alle prese con il suo momento di massima difficoltà, la scelta di ricorrere alla Consulta potrebbe rivelarsi un boomerang. Cosa accadrebbe se la Corte respingesse il conflitto di attribuzione?
IL POMO DELLA DISCORDIA. I fatti che hanno dato il via alla polemica sono noti. Quei file registrati dalla Dia mostrano un Mancino preoccupato e ansioso, che teme il confronto disposto dai pm con l’ex Guardasigilli, Claudio Martelli («Non vorrei che dal confronto viene fuori che io ho fatto una dichiarazione fasulla e quello ha detto la verità, perché a questo punto chi processano? Non lo so…», dice a D’Ambrosio). L’ex ministro degli Interni lamenta anche assenza di coordinamento tra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, doglianze che, il 4 aprile 2012, il segretario generale della Presidenza della Repubblica, gira con una lettera al Procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito nella fase di passaggio delle consegne con Gianfranco Ciani. L’iniziativa del Quirinale ha un seguito: il 19 aprile si tiene in Cassazione una riunione cui partecipano, tra gli altri, lo stesso Pg Ciani e il Pna Piero Grasso. E’ proprio Grasso , dopo aver evidenziato «la diversità dei vari filoni d’indagine» tra Caltanissetta, Firenze e Palermo e «la loro complessità», a far mettere a verbale «di non avere registrato violazioni del protocollo del 28 aprile 2011 tali da poter fondare un intervento di avocazione». Risultato: il confronto con Martelli si terrà regolarmente e Mancino finirà indagato per falsa testimonianza. Ma quando la vicenda finisce sui giornali, non mancano le polemiche. Sebbene, Italia dei Valori a parte, l’intero emiciclo parlamentare, a cominciare dai tre partiti di maggioranza, facciano sin da subito quadrato intorno a Napolitano.
ASSEDIO AL QUIRINALE. «Non esiste alcuna motivazione giuridica che giustifichi un atto del genere. Il Presidente Napolitano sta commettendo l’ennesimo scempio, rendendosi di fatto complice dell’isolamento dei magistrati palermitani che stanno indagando sulla trattativa Stato-mafia. Una manovra tanto più squallida, perché compiuta alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio». Tuona il presidente della Commissione europea antimafia, Sonia Alfano, evocando «la stessa sindrome che caratterizzò gli ultimi mesi del settennato di Cossiga». Parole dure che si sommano a quelle del leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, che accusa il capo dello Stato di «evidente conflitto di interessi» e di ostacolare «l’accertamento della verità» sulla strage di via D’Amelio: «Mi piacerebbe chiedergli cos’hai da nascondere? Cosa c’è nelle telefonate con Mancino che noi non possiamo sapere?». Il Colle è al centro delle polemiche e Napolitano è costretto, proprio nelle ore in cui a Palermo si ricordano Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, a tornare sull’argomento. «La decisione che nei giorni scorsi ho preso, di sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale, è stata dettata – ha sottolineato il Capo dello Stato – fuori di qualsiasi logica di scontro, dal dovere di promuovere un chiaro pronunciamento, nella sola sede idonea, su questioni delicate di equilibri e prerogative costituzionali, ponendo così anche termine a una qualche campagna di insinuazioni e sospetti senza fondamento e al trascinarsi di polemiche senza sbocco sui mezzi di informazione. Non ho nulla da nascondere, ma un principio da difendere, di elementare garanzia della riservatezza e della libertà nell’esercizio delle funzioni di Capo dello Stato».
IL PRECEDENTE BERTOLASO. Un salto indietro, da Palermo a Firenze. Il precedente riguarda le telefonate intercettate dal Ros dei carabinieri, nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Firenze sugli appalti per il G8 del 2009. La voce del presidente della Repubblica finisce per due volte nei file registrati tra il 6 marzo e il 9 aprile 2009. Conversazioni che, in questo caso, non hanno alcun rilievo investigativo. All’altro capo del telefono c’è l’allora numero uno del Dipartimento della Protezione civile, Guido Bertolaso, ed è il suo il cellulare sotto controllo. Nel corso delle due telefonate Bertolaso e Napolitano parlano del terremoto che ha appena devastato l’Aquila. In quei colloqui non c’è, dunque, nulla che abbia a che fare con l’inchiesta sugli appalti, tuttavia i carabinieri li trascrivono lo stesso e sarà Repubblica, tre anni dopo, a darne conto ai propri lettori. Più o meno quanto è accaduto a Palermo, con i colloqui tra Napolitano e Mancino. Come oggi, anche allora il Presidente fu intercettato indirettamente. Ma allora, a differenza di oggi, proprio a nessuno al Quirinale, Napolitano compreso, ha mai sfiorato l’idea di sollevare un conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale. Perché? Che le conversazioni con Mancino, a differenza di quelle con Bertolaso, esclusa la rilevanza penale, possano provocare imbarazzo per la prima carica dello Stato?
COSSIGA E GLADIO. Uno scontro istituzionale che non manca di precedenti illustri. Era l’autunno del 1990 e il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, stava incontrando la Regina Elisabetta a Londra. Una telefonata, da Roma, lo avvisò che un giudice veneziano, Felice Casson, voleva interrogarlo perché, indagando sulla strage di Peteano (31 maggio 1972), si era ritrovato a fare i conti con una struttura paramilitare segreta, meglio nota come “Gladio”. Cossiga conosceva bene l’argomento, nel 1966 da sottosegretario alla Difesa aveva ricevuto la delega a sovrintendere all’attività dell’organizzazione voluta dalla Nato durante la Guerra fredda per fronteggiare un’eventuale invasione sovietica in Europa. Casson, che ha tra le mani i verbali di un pentito che mostra di sapere molto su “Gladio”, vuole vederci chiaro e la sua inchiesta finisce ben presto su tutte le prime pagine dei giornali. Lo scontro con il Quirinale è inevitabile con Cossiga che arriverà ad autodenunciarsi, chiedendo di essere indagato per cospirazione politica. Il 30 ottobre cominciano a circolare i primi nomi degli appartenenti alla “rete clandestina”, il 3 novembre esplode la polemica contro il Colle e cinque giorni dopo il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, interverrà in Senato rivendicando la legittimità di “Gladio”. Casson non molla, chiede la disponibilità del presidente della Repubblica a testimoniare sulla strage di Peteano e su «altri fatti eversivi dell’ordine costituzionale». Ma Cossiga, alla fine, sarà sentito solo dal Comitato di controllo sui servizi segreti.
IL CRACK SASEA. E’ il 1993 e al Quirinale c’è un altro presidente, Oscar Luigi Scalfaro. A Milano la Guardia di finanza, indagando sulla bancarotta della finanziaria svizzera Sasea Holding, sta compiendo una serie di delicati accertamenti e il 12 novembre 1993, intercettando l’utenza telefonica dell’allora amministratore delegato della Banca popolare di Novara, Carlo Piantanida, s’imbatte nella voce del presidente della Repubblica. La telefonata finirà sui giornali molto tempo dopo, nel febbraio del 1997, e sarà Il Giornale a riferirne i contenuti, che in questo caso furono trascritti e depositati tra gli atti del procedimento per la bancarotta della Sasea. La polemica è inevitabile. Il senatore a vita Francesco Cossiga presenta un’interpellanza al ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, che è costretto a rispondere. Il caos è simile allo scontro tra Napolitano e la Procura di Palermo. Sarà lo stesso procuratore Francesco Saverio Borrelli a confermare che i contenuti di quella telefonata erano privi di qualsiasi rilevanza penale e che la voce del presidente era stata intercettata, anche in questo caso, indirettamente. Flick intervenendo al Senato dirà poi che i magistrati non violarono alcuna norma, «anche se la procedura seguita non appare in linea con i principi della Costituzione a tutela del Presidente della Repubblica». L’allora Guardasigilli, tuttavia, non ravviserà nella loro condotta «aspetti di macroscopica inosservanza delle disposizioni di legge o di loro abnorme interpretazione». Dalla parte del Colle si schierò il Costituzionalista Leopoldo Elia, secondo il quale a tutela del Capo dello Stato esiste l’articolo 277 del codice penale che ne difende «la libertà psichica per evitare che un certo tipo di assedio, di accuse e insinuazioni possano ledere la libertà e l’indipendenza di decisione del presidente della Repubblica stesso». Mentre sempre secondo Flick il divieto di intercettare il Capo dello Stato doveva essere chiaramente esteso anche agli “ascolti” indiretti, con il divieto «altrettanto assoluto» di trascrivere e depositare le telefonate eventualmente intercettate. Oggi, invece, sulla questione sollevata da Napolitano la Corte Costituzionale dovrà dire l’ultima parola.
di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 2 agosto 2012 [pdf]
All’ombra della trattativa
L'anno delle stragi, del delitto Lima (12 marzo), di Capaci (23 maggio) e via D’Amelio (19 luglio). Anno di grande fermento politico: dalle dimissioni (28 aprile) del «picconatore» Francesco Cossiga, che lascia il Quirinale prima della scadenza del suo settennato aprendo la strada all’ascesa al Colle di Oscar Luigi Scalfaro, fino alle elezioni politiche. Sono passati vent’anni da quel maledetto 1992: si cercano ancora verità e risposte. Sull’escalation di una sanguinaria stagione delle stragi che, dalla Sicilia, allungherà la sua scia di morte sul “continente”. Dalle bombe in via dei Georgofili a Firenze (nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993) a quelle contro le chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma e in via Palestro a Milano (27 luglio). E’ lo scenario nel quale, secondo i magistrati della Procura di Palermo, l’aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, che hanno firmato l’avviso di chiusura delle indagini, si dispiega e va in scena la trattativa Stato-mafia al centro della loro inchiesta.
IL DELITTO LIMA: L’INIZIO
Dai verbali d’interrogatorio dei dodici indagati e delle persone sentite come testimoni, i magistrati di Palermo cercano di fare luce sulla consecutio temporum che si instaura tra i fatti di sangue firmati dalla mafia e l’evoluzione del quadro politico nazionale di quegli anni. In particolare, sulle ripercussioni del delitto Lima. «L’uccisione del parlamentare non è l’inizio della trattativa ma è un omicidio di rottura dei rapporti con la classe politica – chiarisce il procuratore aggiunto Antonio Ingroia in una recente intervista a Libero –. L’aggiustamento del maxiprocesso era fallito e la mafia voleva dare una sanzione». ...continua a leggere "All’ombra della trattativa"
Ustica, i giudici: missile o collisione. Il Dc9 abbattuto in un’azione di guerra
ROMA - Nel cielo di Ustica la notte del 27 giugno 1980 ci fu un’azione di guerra. E in questo scenario il Dc9 della compagnia Itavia, che andava da Bologna a Palermo, fu abbattuto da un missile o a causa di una quasi collisione con un altro aereo mai identificato. E’ questa la conclusione cui è giunto il 10 settembre il giudice della terza sezione civile del Tribunale di Palermo, Paola Proto Pisani, condannando i ministeri della Difesa e dei Trasporti a pagare un risarcimento record (100 milioni di euro oltre oneri e interessi) agli 81 familiari delle vittime della strage di Ustica. Dalla sentenza - resa nota ieri dagli avvocati Daniele Osnato e Alfredo Galasso, che l’hanno definita «una crepa nel muro di gomma» - emerge che l’incidente avvenne «a causa di un intercettamento realizzato da parte di due caccia», che tra Ponza e Ustica «viaggiavano parallelamente ad esso» e di un altro velivolo militare «precedentemente nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar». Secondo la Proto Pisani, a causare il disastro che portò alla morte di tutti e 77 i passeggeri e dei 4 membri dell’equipaggio, non fu, perciò, né un cedimento strutturale né un’esplosione interna, bensì «la diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto oppure di una quasi collisione verificatasi tra l’aereo nascosto edilDc9». In pratica lo stesso scenario ricostruito nel ‘99 dal giudice istruttore Rosario Priore, che, tuttavia, non riuscì a individuare gli autori della strage. Il tribunale civile siciliano era stato chiamato a stabilire se, e in quale misura, i due dicasteri non avevano svolto ogni necessaria azione per tutelare l’incolumità del volo Itavia, impedendo così ai parenti di conoscere la verità. Attorno al Dc9, afferma la sentenza, «c’era una situazione aerea complessa», confermata anche dal tracciato radar di Ciampino. Il tribunale di Palermo punta il dito anche contro gli ufficiali e sottoufficiali dell’Aeronautica militare, che sistematicamente depistarono e intralciarono il più «proficuo svolgimento delle indagini, mediante sottrazione di documentazione».
di Fabrizio Colarieti – Il Messaggero, 22 settembre 2011 [pagina originale]