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Qualche mese fa ho ricevuto una telefonata, arrivava da Palazzo Chigi: «Colarieti? E' la segreteria del sottosegretario Giovanardi». Un attimo dopo, dall'altra parte dell'apparecchio, c'era proprio lui. La cordiale chiacchierata durò una decina di minuti e il tema era la Strage di Ustica. «E' stata una bomba», mi ripeteva Giovanardi con tono concitato, «abbiamo le prove e lei, con il suo sito, continua a ripetere che quella sera c'è stata una battaglia aerea e che il Dc9 fu abbattuto da un missile. Guardi che è tutto falso, intorno al Dc9 non c'erano altri aerei nel raggio di centinaia di chilometri».
Di telefonate così ne ho ricevute altre, l'ultima il 9 dicembre 2010: «Lei crede alle favole e agli asini che volano», mi ha ripetuto Giovanardi. Non so perché, anche se posso immaginarlo, da un po' di tempo il sottosegretario continua a ripetere le stesse cose, arrivando anche a minacciare querele a chi non la pensa come lui. L'ha fatto nel corso di una conferenza stampa a Bologna (il 22 novembre 2010), lo ha ripetuto rispondendo a un'interrogazione alla Camera (il successivo 2 dicembre) e ribadito intervenendo in diversi convegni. Secondo l'esponente del Governo - lo stesso Governo che a luglio dello scorso anno ha controfirmato le rogatorie promosse dalla Procura di Roma (che indaga ancora sul caso Ustica) verso Francia, Belgio, Germania e Stati Uniti - qualcuno mise una bomba nella toilette del Dc9 Itavia che il 27 giugno 1980, mentre percorreva la tratta Bologna-Palermo, precipitò nel mare di Ustica con 77 passeggeri e 4 membri dell'equipaggio a bordo. ...continua a leggere "Quella strana bomba nella toilette del Dc9"

Una pioggia di missili Tomahawk si è abbattuta su Tripoli aprendo un nuovo conflitto a due passi dalle nostre coste e di colpo, guardando quelle immagini, il nastro della storia sembra riavvolgersi velocemente. E se domani Gheddafi tornasse al potere? Un’ipotesi remota che aprirebbe (anche in casa nostra) una sanguinosa caccia ai dissidenti - senza confini né regole - a cui abbiamo già assistito molto tempo fa.
Dentro lo scatolone di sabbia, dove un popolo oppresso da quarantadue anni attende la caduta del suo Rais, tutto torna a mostrarsi come trent’anni fa. Era il 1980 e Gheddafi si era già attaccato sulle spalline i gradi da colonnello. Era già lo stravagante dittatore beduino che nel tempo abbiamo imparato a conoscere e lo spregiudicato tiranno dalle sette vite con cui, oggi come allora, abbiamo sempre fatto buoni affari. Nel 1980, quando la Francia di Giscard d'Estaing gli tese un agguato nel cielo di Ustica (che costò all’Italia l’abbattimento del Dc9 Itavia), il suo regime era già in piedi da undici anni, e lui, il Muammar, era già un nostro partner commerciale da servire e riverire. E il 1980 è anche l’anno in cui la dissidenza libica in Europa, ma in particolare in Italia, subisce colpi durissimi da parte del regime gheddafiano.
La caccia al dissidente inizia tra marzo e aprile. Il 27 aprile è lo stesso Gheddafi, nel corso di una cerimonia presso l’Accademia Militare di Tripoli, a lanciare un ultimatum per il rimpatrio dei fuoriusciti: “tornate in Libia o vi uccidiamo tutti”. La data ultima per il rientro in Patria di tutti i dissidenti residenti all’estero è l’11 giugno 1980, giorno del decimo anniversario della cacciata degli americani dalla base libica di Wheelus Field. “Chi non torna sarà giustiziato”, afferma il 3 maggio, nel corso di una conferenza stampa tenuta a Roma, un membro del Comitato Popolare della Rappresentanza libica. A fine maggio il capo dell’Ufficio Popolare libico per le rappresentanze diplomatiche estere, Ahmed Shahati, convoca gli ambasciatori della Comunità europea accreditati a Tripoli e formalizza la richiesta del suo Governo: “ogni oppositore dovrà essere consegnato, in caso di rifiuto ci saranno pesanti ritorsioni”. E’ solo una formalità, perché Tripoli da almeno due mesi ha già sguinzagliato in mezza Europa decine di emissari del suo spietato Servizio di sicurezza. La loro missione è mostruosamente chiara: convincere i dissidenti a rientrare in Libia o, in caso di rifiuto, eliminarli fisicamente. E’ l’inizio di una guerra tra spie e oppositori.  ...continua a leggere "Muammar Gheddafi: very strong measures"

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Velletri (Roma), 12 settembre 1990, ore 17. L’estate non sembra ancora voler fare le valigie per lasciare il posto all’autunno che comincia timidamente a far arrossire le chiome degli alberi. Quattro uomini, che indugiano sotto il balcone del civico ventotto della Contrada Colle dei Marmi, sembrano voler rubare al giorno le ultime forze prima del tramonto fino a quando un rombo lontano desta la loro attenzione. Una giornata qualunque invece per l’uomo che si appresta a tornare a casa sulla sua Volkswagen bianca che sta per svoltare l’angolo. Nell’aria immobile rimangono solo i quattro uomini che si schierano pronti a imprimersi in maniera indelebile in quella giornata mai andata a dormire, rimasta nella memoria collettiva.
L’uomo scende dall’auto immerso nei suoi pensieri, forse la moglie, o il figlio Daniele, che a soli quattro anni riesce a sciogliere un iceberg con i suoi occhioni teneri, Erika, la maggiore, curiosa come chi, a sei anni, si appresta a scoprire il mondo. Ma chissà, poi, se ha realmente il tempo di pensare un uomo nell’istante che separa un'azione tanto comune da un’aggressione, nel momento in cui viene picchiato, incappucciato e narcotizzato da quattro uomini che decidono del suo destino.
Se fosse una fiction, se questa storia la dovessimo raccontare per la tv, la prima scena, quella di apertura, la scriveremmo esattamente così: Davide Cervia si trova d’un tratto al centro di una scena di paura improvvisa nella via tranquilla di una giornata qualunque. Le sue urla chiedono aiuto oltre le mura, la via, oltre il silenzio che avvolgerà tutto. Perché è plausibile pensare che nella realtà le cose siano andate proprio in questo modo. Perché se Davide Cervia fosse il protagonista di questa fiction sarebbe scomparso così. Questa è la ricostruzione di un’azione che assomiglia tanto a una extraordinary rendition, una consegna straordinaria, un sequestro di persona, come quelli compiuti dalla Cia in giro per il mondo nel nome della lotta al terrorismo. ...continua a leggere "Storie maledette. Il caso Cervia"

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Che Gheddafi sappia la verità sull’affaire Ustica è un dato incontrovertibile, non fosse altro perché quella notte nei cieli del basso Tirreno – lo ha ripetuto lui stesso decine di volte – il vero obiettivo (degli americani e dei francesi), era proprio lui e non il Dc9 dell’Itavia. E trentuno anni dopo quella tragedia, mentre il regime del Muammar si sgretola su se stesso, riemergono inquietanti particolari sui rapporti tra Italia e Libia, sulla vicenda di quel Mig caduto sulla Sila, forse lo stesso giorno in cui fu abbattuto il Dc9, e sull’atteggiamento, assai sospetto, del Governo italiano, del Sismi e degli allora vertici della Fiat. Cosa c’entra la più grande azienda automobilistica italiana, con Ustica e con Gheddafi, lo spiega oggi Cesare Romiti, l’uomo che guidò i vertici del Lingotto dal ‘74 al ’98. «Gianni Agnelli informò George Bush senior, che allora era alla guida della Cia: ne ricevette una serie di raccomandazioni e il via libera. Poi, insieme, andammo da Carlo Azeglio Ciampi, e ricevemmo la benedizione anche del Governatore della Banca d'Italia». Queste le sue parole, in un'intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scorso 23 febbraio, con cui racconta le «trattative lunghissime, durate quasi due anni» per l'ingresso della Libia nell'azionariato Fiat. Nei dieci anni della Libia in Fiat, con circa il 10 per cento, dice Romiti, non ci fu «mai un'interferenza, mai una richiesta. Si sono sempre comportati come banchieri svizzeri», gli accordi del resto erano chiari: «Non sarebbero mai entrati nella gestione, non avrebbero mai avuto notizie sensibili». Ma Romiti ricorda al Corriere anche un’altra cosa, che non può passare inosservata: narra di una telefonata ricevuta da Regeb Misellati, uno dei due consiglieri in Fiat della Libyan Arab Foreign Investment Company (Lafico), l'organizzazione pubblica libica, controllato al 100 per centro dal Tesoro, che si occupava degli investimenti internazionali e di gestire i proventi petroliferi. In quella telefonata Misellati, ex impiegato della filiale di Tripoli della Barclays Bank, poi diventato uno dei finanzieri di punta di Gheddafi, chiese a Romiti «una mano per recuperare i resti dell'aereo». Il presidente della Fiat, oltre che con Misellati, parlerà della tragedia del volo Itavia anche con un altro consigliere di Lafico, Abdullah Saudi: «Li avevo sentiti, naturalmente, subito dopo l'incidente di Ustica. Incidente, poi... Temevamo tutti - afferma ancora Romiti - fosse stato un missile. Uno sconfinamento, una battaglia segreta nei cieli, l'arma che parte e colpisce l'aereo civile. Ne parlammo. Mi rassicurarono. So che qualche settimana più tardi si scoprì il "caccia" libico caduto in Calabria. Misellati mi richiamò». ...continua a leggere "La Fiat di Cesare Romiti e il mistero del Mig libico"