«Innanzitutto un buongiorno, che sia un buongiorno per tutti. Mi chiamo Gaspare Spatuzza e intendo rispondere alle vostre domande». Così “u tignusu” (il pelato), il pentito anti-premier, al secolo Gaspare Spatuzza, già stretto collaboratore dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e uomo di fiducia del boss corleonese Leoluca Bagarella, si è presentato lo scorso 3 febbraio nell’aula bunker di Firenze dove si sta celebrando il processo per la stragi del ‘93 (Via dei Georgofili a Firenze, 27 maggio; Via Palestro a Milano, 27 luglio; San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma, 28 luglio).
Spatuzza per la Procura di Firenze - che lo ha chiamato come teste al processo che vede imputato l’uomo d’onore Francesco Tagliavia in qualità di «coautore» della strage che distrusse l’Accademia dei Georgofili e uccise 5 persone ferendone altre 48 - è il testimone chiave. Oggi studia teologia e invoca il perdono, è in carcere dal ’97 per 6 stragi e 40 omicidi, si è autoaccusato di aver rubato la Fiat 126 che il 19 luglio 1992 venne impiegata per far saltare in aria Paolo Borsellino e la sua scorta, di aver partecipato all’omicidio di don Pino Puglisi e di aver rapito il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, sciolto nell’acido dopo oltre due anni di prigionia.
Spatuzza, già condannato anche per gli stessi attentati del ‘93, si è presentato in aula completamente vestito di nero, scortato da sette uomini del Gom in “mefisto”, e ha parlato, nascosto da un paravento, per sette ore. Chiede perdono a Firenze e lo aveva già fatto con una lunga lettera inviata nel giugno 2010 all’Associazione dei familiari delle cinque vittime dell’attentato di via dei Georgofili. E “u tignusu” la sua versione la racconta a partire da quei giorni, quelli che precedettero la strage: «Nel maggio 1993 sono arrivato a Firenze da terrorista. Il nostro obiettivo era di colpirla nel cuore e ci siamo riusciti - ha detto il pentito rispondendo alle domande dei pm Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi - oggi dopo 17 anni vengo come collaboratore di giustizia, pentito, e chiedo perdono. Un perdono che può non essere accettato, può essere strumentalizzato, ma dovevo farlo».
...continua a leggere "Parla “u tignusu”"
Tag: giudiziaria
Via Poma, vent’anni dopo
«Perché sono stato condannato? Perché ci deve essere una seconda vittima? Tutto questo è ingiusto». Raniero Busco, 46 anni, ha pronunciato queste parole prima di crollare sulle sue gambe, il 26 gennaio scorso, dopo che il presidente della terza Corte d’Assise di Roma, Evelina Canale, aveva letto il dispositivo della sentenza di primo grado con cui lo ha condannato a 24 anni. Venti anni dopo la giustizia - anche se è pur vero che si è innocenti fino a sentenza definitiva - ha trovato l’assassino che il 7 agosto 1990, in quell’appartamento di via Poma a Roma, accoltellò per 29 volte la giovane Simonetta Cesaroni. Per i giudici quel mostro è lui: il suo ex fidanzato, quel giovane biondino di 26 anni che l’amava perdutamente, “uno di casa”, l’ultimo degli indagati dopo diciassette anni di indagini che avevano detto tutto e il contrario di tutto. Raniero non se l'aspettava proprio. Nel corso del processo, durato appena un anno, si era sempre professato innocente e alla fine credeva che anche chi lo stava giudicando, sulla base di prove che per la sua difesa erano poco credibili, si sarebbe convinto della sua innocenza. Le sue gambe non hanno retto e alla fine, mentre in un’aula gremita di gente c’era chi piangeva per lui (gli amici) e chi accoglieva il verdetto con soddisfazione (i familiari della vittima), suo fratello e sua moglie Roberta lo hanno portato via di peso. «Questa sentenza - ha affermato a caldo la sorella di Simonetta, Paola - è la conferma della fiducia che non abbiamo mai perso nella giustizia, nelle istituzioni e nell'impegno dei pm in venti anni di lavoro. Siamo stati premiati perché abbiamo sempre creduto nel lavoro degli inquirenti in qualsiasi direzione andasse. Anche se - ammette Paola Cesaroni - il nostro dolore rimane e non sarà mai cancellato». ...continua a leggere "Via Poma, vent’anni dopo"
«La trattativa con la mafia? Bufale inventate di sana pianta»
«Gli accordi e la trattativa di cui parlano i magistrati di Palermo? Sono bufale inventate di sana pianta. Il generale Mario Mori ha servito il suo Paese e lottato contro la mafia». A parlare è Roberto Longu, ex maresciallo del Ros, membro di Crimor, lo speciale nucleo dell’Arma dei Carabinieri che nel ’93, al comando del capitano “Ultimo”, al secolo colonnello Sergio De Caprio, arrestò Totò Riina. «Non ci fu nessun accordo con Riina. La mafia - prosegue Longu - noi la combattevamo e basta. Quel giorno c’ero anch’io: la perquisizione del covo del capo dei capi non fu fatta solo ed esclusivamente per motivazioni di ordine operativo, legate alla strategia investigativa di Crimor. Il resto sono tutte sciocchezze inventate di sana pianta da alcuni magistrati di Palermo. Basta rileggersi la prima sentenza, quella che assolse Mori e Ultimo dall’accusa di favoreggiamento aggravato (in favore di Cosa Nostra, ndr) per la famigerata mancata perquisizione del covo di via Bernini, per rendersi conto che fu proprio De Caprio a opporsi alle scelte del pm Vittorio Aliquò. Il magistrato voleva operare facendoci perquisire un luogo dove il boss era stato molti anni prima e se l’avessimo ascoltato probabilmente Riina oggi non sarebbe in carcere. Perché non indagano Aliquò? La magistratura non è un pezzo dello Stato come il Ros? Ora - va avanti l’ex maresciallo - si inventano che è tutta una macchinazione, che addirittura ci fu una trattativa tra lo Stato (cioè noi del Ros) e la mafia, tra l’altro dando credito alle rivelazioni di Massimo Ciancimino che, non lo dimentichiamo, è figlio del padre. C’ero anche nel ’95, nella masseria di Mezzojuso, dove un collaboratore ci disse che avremmo dovuto trovare Bernardo Provenzano. Non si sapeva né quando né come. La fonte doveva recarsi in quel posto su ordine dello stesso Provenzano - aggiunge Longu - e non avevamo alcuna certezza sulla fondatezza di queste informazioni. In più quel casolare era in una zona isolata, al centro di una piana, e controllarlo da vicino era difficilissimo, perché tutti in quel paese di quattro anime si sarebbero immediatamente accorti della nostra presenza. Perché non furono installate delle telecamere? Perché non c’erano posizioni idonee. Non è stato mai rivelato un altro particolare: effettuammo anche un’intrusione notturna nel casolare, per tentare di installare delle microspie, ma non fu possibile. A quel tempo in alcune zone mancava l’energia elettrica e perciò bisognava avvisare l’Enel e utilizzare i loro mezzi per posizionare le apparecchiature e ciò significava rivelare la nostra presenza, cioè compromettere l’indagine. Abbiamo fatto centinaia di controlli e sopraluoghi e Provenzano non lo abbiamo visto. Nessuno ci bloccò - chiosa l’ex maresciallo del Ros - nessuno ci disse “non lo prendete” e la catena di comando non fece altro che stare alle nostre direttive che eravamo sul posto e che per giorni avevamo fatto il servizio di Ocp (osservazione, controllo e pedinamento, ndr) intorno a quella masseria».
Fabrizio Colarieti - 27 ottobre 2010
Il documento che non c’è e la disinformazione di Giovanardi
Il sottosegretario Carlo Giovanardi continua a ripetere, a memoria, la storiella della bomba, quella che sarebbe stata messa (non si sa da chi e per quale motivo) nella toilette del Dc9 Itavia che il 27 giugno 1980 precipitò nel mare di Ustica con 81 passeggeri a bordo. Una bomba, smentita dalla logica e dalla scienza, che tuttavia - secondo Giovanardi e l'Aeronautica - scoppiò su un aereo che decollò con due ore di ritardo, perciò quando era già in quota, e verosimilmente senza danneggiare gli arredi della stessa toilette. Tuttavia giova di nuovo ricordare (in particolare a Giovanardi) che secondo le conclusione dell'inchiesta condotta dal giudice Rosario Priore il DC9 fu vittima di un'azione di guerra:
L’incidente al DC9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il DC9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti. ...continua a leggere "Il documento che non c’è e la disinformazione di Giovanardi"