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ciampoliE' in magistratura da quarantasette anni, ha lottato contro la mafia e il terrorismo di destra e di sinistra, ora siede nello scranno più alto dalla giustizia laziale, la procura generale presso la Corte d’Appello di Roma. Luigi Ciampoli, per la prima volta da quando indossa la toga, si concede a Il Punto in un’intervista a tutto tondo. Dalla mattanza in corso a Roma, fino ai temi caldi della giustizia, passando per Mani pulite e i rapporti tra magistratura e politica, e tra toghe e giornalisti.
Dottor Ciampoli, partiamo dall’ondata di sangue che ha investito la Capitale, cosa sta accadendo?
«Roma non è differente dalle altre città. Ci sono dei fenomeni criminali che fanno parte dell’essere della società d’oggi. E’ il riscontro di una situazione nuova, certamente non condivisa. Oggi ci meravigliamo di tante situazioni e ci sorprendiamo di come sia stato possibile concepire questa violenza, ma, tutto sommato, se facciamo un confronto con il passato, ci accorgiamo che purtroppo l’uomo è sempre stato così com’è, nel bene e nel male. Non è una situazione che determina un nuovo allarme, è una situazione che va, come sempre, tenuta sotto controllo e che sollecita attenzione. Oggi in molti insistono col dire che sono tornati i tempi della Banda della Magliana. Non occorre rispolverare vecchi fantasmi, spettri o spauracchi. La situazione è, come ho detto, figlia del suo tempo».
Sono cambiati i tempi, lei recentemente ha parlato della crisi come una delle cause scatenanti di tanta violenza.
«Ci scontriamo con una realtà politicosociale diversa, abbiamo una polietnia molto più accentuata rispetto a trent’anni fa. Dobbiamo fare i conti e tenere conto, senza ovviamente voler colpevolizzare o stigmatizzare determinati comportamenti, di culture e di estrazione diverse, che pure servono anche all’Italia, ma certamente non determinano allarme solo perché esistono. Siamo di fronte a una situazione diversa che rispolvera un concetto antico, cioè la necessità di amalgamare la società con la cultura giuridica. Non serve cercare patologie, ma rinnovare l’esistenza di determinati valori sì».
C’è molta attesa per l’arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone, vi siete già consultati?
«Sì, ci siamo sentiti. Ho espresso la mia soddisfazione e gli ho già fatto gli auguri. E’ un collega molto serio, preparato e con una grande esperienza e capacità professionale, e questo credo porti a una visione del futuro degli uffici romani favorevole. C’è molto lavoro da fare e Pignatone, ne sono certo, è la persona giusta».
Parliamo di corruzione. Sono passati vent’anni da Tangentopoli e non è cambiato un granché, anzi...
«Siamo di fronte a uno scadimento di valori. Man mano che si abbassa la soglia della differenza tra lecito e illecito aumenta la corruzione. Le faccio un esempio: offrire del denaro a un pubblico ufficiale per ottenere un favore, è un tentativo di corruzione, anche grave, ma è anche l’indice di un valore che non porta soltanto a individuare il livello di corruttibilità del pubblico ufficiale ma anche a sminuire il valore stesso della partecipazione del corruttore alla democrazia. Anche l’evasione fiscale è una forma di corruzione dei valori democratici. Se accetto di evadere, o di concorrere all’evasione non pretendendo lo scontrino fiscale o la fattura, non faccio altro che sminuire, in funzione di una valutazione di un’utilità peraltro molto limitata, il mio valore di partecipazione alla comunità. Il livello di corruzione aumenta perché è salita la valutazione di ciò che è lecito rispetto all’illecito. L’aumento della corruzione è anche frutto dei tempi, delle esigenze e di come concepiamo la vita moderna. Da mani pulite a oggi è aumentata la sfrontatezza e sono diminuiti senso di onestà e percezione del lecito, il tutto favorito da una economia evidentemente più debole. L’esplosione del fenomeno tangentopoli purtroppo non è stato un deterrente».
Giustizia e riforme. Cosa pensa della separazione delle carriere tra giudici e pm?
«La separazione delle carriere la considero inutile e pericolosa. E’ l’individuo che va corretto, non intaccando un principio costituzionale che è uno dei fulcri fondamentali della democrazia. Il pubblico ministero, che ha il coraggio e il dovere di richiedere l’assoluzione dell’imputato se questi è innocente o se non ha le prove per dimostrare la sua colpevolezza, trova in questa norma morale e giuridica la forza di sentirsi autonomo da altri, libero da condizionamenti. Non certamente da una separazione che rimane sulla carta. Partendo dal principio Costituzionale secondo cui i magistrati sono giudici e pubblici ministeri. Non ritengo infatti che il giudizio nei miei confronti possa cambiare solo se il mio ascensore si ferma al piano dei giudici o a quello dei pubblici ministeri, ma solo se faccio il mio lavoro in tutta serenità e obiettività. Ritengo di essere stato uno dei primi, quale pubblico ministero a proporre ricorso per Cassazione a favore di un imputato, superando così l’idea che il pubblico ministero possa solo ed unicamente sostenere l’accusa e la colpevolezza dell’imputato. Effetto che invece sarebbe fatalmente consequenziale alla separazione delle carriere. La severità non è la prevaricazione di norme. Gli errori ovviamente si fanno in tutte le categorie, esistono medici bravi e altri che purtroppo commettono errori fatali, noi pure dobbiamo tenere alto il valore delle nostre responsabilità in considerazione del fatto che anche dal nostro agire può dipendere la vita di un uomo».
E sulla responsabilità civile dei magistrati?
«Sono d’accordo. Tra l’altro esiste già. E’ una legge che può essere migliorata, sensibilizzando i magistrati a non prestare il fianco a giudizi risarcitori. Può essere migliorata anche per quanto riguarda i poteri d’intervento, che dovrebbero essere più incisivi, da parte dei capi degli uffici pur salvaguardando il rispetto della decisione dei colleghi. Sono d’accordo a migliorare il potere di controllo. Perché dare responsabilità alle persone presuppone soprattutto affidamento».
E’ forse arrivato il momento di rimettere mano anche alla geografia giudiziaria?
«Parlerei di rivisitazione della distribuzione degli uffici. Non ci possono essere uffici giudiziari, come la Procura di Roma, dove un solo collega ha tremila processi assegnati e un altro ufficio che ne ha al massimo trecento in un anno. Le risorse sono scarse, indubbiamente, e questo non è un problema solo delle procure, penso alle forze dell’ordine che devono fare i conti con la benzina che scarseggia. E’ una situazione che va avanti da tempo. Da oltre quindici anni non ci sono concorsi pubblici per assumere personale amministrativo per gli uffici giudiziari. Ed è dimostrato, invece, che lavora più un ufficio con un magistrato e cinque collaboratori, che viceversa ».
E sulla lentezza della giustizia?
«Sul discorso dell’efficienza, un processo è un processo. Che sia celere, quando non deve esserlo, è un non processo, cioè nega la giustizia. Se la velocità è una caratteristica essenziale di espletamento di ogni pratica, è un giusto espletamento, ma il processo deve essere privo d’inutilità, più che breve o veloce. Ad esempio in tema di notifiche, a seconda delle varie fasi processuali, dovremmo intervenire per snellirlo. Nel sistema anglosassone, a cui si fa spesso riferimento, c’è una sola notifica iniziale. L’individuo è portato a conoscenza di determinati fatti e da quel momento è suo interesse informarsi, non servono ulteriori comunicazioni».
E’ necessario porre dei freni anche nei rapporti con gli organi d’informazione?
«Non mi piace affidare la conoscenza dell’andamento delle mie procure agli organi di stampa. Lo dico amaramente, ma purtroppo spesso vengo a conoscenza di tante situazioni o di tanti processi aprendo i quotidiani o ascoltando i telegiornali. I magistrati parlano troppo. In tanti anni di magistratura credo sia la mia prima vera intervista, perché ho sempre preferito parlare con gli atti delle mie requisitorie,ed è il modo migliore con cui un magistrato può rispondere alle notizie di stampa. Il magistrato non dovrebbe apparire, quello che deve interessare all’opinione pubblica è che una determinata indagine si sia conclusa felicemente, punto. Perciò meno spettacolarizzazione. Se le affido una notizia, o faccio in modo che lei abbia una notizia, io mi scontro con il suo diritto-dovere di pubblicarla questa è la democrazia. Il discorso è a monte: sono io che non devo farle avere le notizie. E’ un falso problema, bisogna intervenire normativamente facendo in modo che la riservatezza a monte sia tutelata al massimo. Non serve abolire le intercettazioni per evitare che finiscano sui giornali».
Cosa pensa di molti suoi ex colleghi transitati dalla toga alla politica?
«Sono assolutamente contrario. Il magistrato non può e non deve fare politica. Nel senso che a un magistrato nel momento in cui sceglie di candidarsi, e come tutti i cittadini può farlo, deve essere vietato, riesca o non riesca, il rientro in magistratura. Si eviterebbero molte strumentalizzazioni cui abbiamo già assistito. Chi accetta una candidatura o partecipa a una competizione elettorale deve rinunciare alla toga. Nel nuovo ordinamento giudiziario, tra l’altro, esiste il divieto, sancito disciplinarmente, di appartenere a una forza politica ».
Si sente anche lei un partigiano della Costituzione come Ingroia?
«Sono affermazioni d’effetto, mirano solo a quello. Perché l’essere convinto di determinate cose non comporta la necessità di estrinsecarle e non ne vedo la sostanziale utilità. Le rispondo con una frase del Vangelo: non chi entra in Chiesa e si batte il petto davanti a tutti fa la volontà del Padre, ma solo chi nel suo intimo risponde alla sua volontà. Quindi mi posso sentire benissimo partigiano, ma non occorre che lo dica. Dà la stura a sensazioni che possono essere positive e negative. Capisco invece quello che il collega ha voluto dire, cioè di sentirsi veramente impegnato. La Costituzione non ha partigiani, grazie a Dio. Ha un valore democratico che per sua definizione non può essere di una parte, è universale. Ma sentire intimamente il desiderio di fare giustizia, questa è una cosa bellissima».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 15 marzo 2012 [pdf]

piergiorgio morosiniAAA cercasi magistrati pronti a morire, anche di lavoro. A Santa Maria Capua Vetere, provincia di Gomorra, regno dei Casalesi, è stato pubblicato per due volte consecutive in un anno un bando per coprire 21 posti da magistrato, ma nessuno ha risposto. La pianta organica del Tribunale meno ambito d’Italia parla chiaro: in trincea dovrebbero esserci 94 toghe, ma ce sono solo 72, più il presidente. Negli ultimi sei anni 71 magistrati hanno chiesto di andare via, per l’eccessivo carico di lavoro, e ora il Csm pensa di tamponare l’emorragia – che rischia di paralizzare l’attività di sei sezioni penali in una terra dove si combatte la Camorra ogni giorno - inviando magistrati tirocinanti. Intanto 6 giudici e 2 sostituti procuratori hanno chiesto di essere trasferiti a Napoli, ma non ci stanno ad essere additati come fuggiaschi. Santa Maria Capua Vetere è l’emblema della “geografia giudiziaria”, classe 1861, che mette sullo stesso piano tribunali ormai inutili, ma a organico pieno, e altri sull’orlo del collasso, senza né mezzi né uomini e in prima linea in territori ad altissima densità criminale. Rispondendo alle domande de Il Punto, il giudice palermitano, Piergiorgio Morosini, segretario generale di Magistratura Democratica, la corrente progressista dell’Anm, lancia un appello: «Mettiamo attorno allo stesso tavolo i rappresentanti di politica, magistratura, avvocatura e pubblico impiego, per individuare le priorità alle quali dobbiamo dare necessariamente una risposta immediata».
Dottor Morosini, a Santa Maria Capua Vetere mancano all’appello 21 magistrati, il Csm sta provando a tamponare l’emorragia inviato “giudici ragazzini” per sostenere l’enorme carico di lavoro, siamo di fronte al collasso della giustizia che denunciate da anni?
«Direi che siamo di fronte a temi atavici della giustizia italiana, legati al fatto che la pianta organica dei tribunali e delle procure non è aggiornata rispetto alle esigenze che abbiamo in questo momento. Santa Maria Capua Vetere è una sede che si occupa di criminalità organizzata di stampo camorristico concepita in un’epoca in cui l’azione di contrasto nei confronti dei clan non era così incisiva, quindi, rispetto a questo problema, ci sono responsabilità anche da parte della politica». ...continua a leggere "Giustizia a costo zero"

E’ Roma, non la Chicago degli anni Venti. Trentatré omicidi in undici mesi, con il pesante sospetto che dietro tanto piombo e morte ci sia una guerra tra delinquenti, piccoli e grandi, che sgomitano per controllare il territorio e scalare le gerarchie criminali. Una lunga scia di sangue che, secondo alcuni, sta disegnando uno scenario identico a quello che caratterizzò gli anni Settanta, mentre, secondo altri, tanta violenza sarebbe il segnale più evidente che la criminalità organizzata, tutta, si sia definitivamente insediata nella Capitale. A lanciare l’allarme, che nel ventre di Roma c’è qualcosa che sta cambiando, con cui prima o poi bisognerà fare i conti, è il giudice Otello Lupacchini, colui che disarticolò la più potente organizzazione criminale autoctona che abbia mai operato nella Capitale: la Banda della Magliana. «Non v’è dubbio che trentatré morti, siano effettivamente molti - commenta il giudice rispondendo alle domande de Il Punto - ma il dato interessante, in questi ultimi giorni, è comunque un altro: sembra sia finito il tempo degli esorcismi o, se si preferisce, del negazionismo. Così il sindaco Alemanno come pure il responsabile della Direzione distrettuale antimafia, Capaldo, sebbene con toni e accenti diversi, segnalano finalmente il “rischio mafia” nella capitale. Il primo, infatti, ha esternato il timore che “ci sia un contatto tra le bande territoriali e la grande criminalità organizzata, che ha già comprato pezzi di economia romana e che si è limitata finora a investire”; il secondo, più prudente, di fronte ai due ultimi assassinati a Ostia, per altro già coinvolti, ma anche usciti pressoché indenni da indagini di criminalità organizzata, che descrive, tuttavia, come “due personaggi profondamente inseriti nel contesto della criminalità organizzata di un certo significato, non marginale, insediata anche a Roma nel traffico di droga e usura, già coinvolti in fatti di sangue e conflitti tra bande”, ha rilevato invece come sia in atto uno “scontro evidente tra due gruppi criminali molto forti”, quantunque non specifichi a quali gruppi si riferisca». ...continua a leggere "Romanzo criminale"

Nessun passo indietro, anzi. Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, intende rimanere un “partigiano della Costituzione”, con tanto di tessera dell’Anpi in tasca. Dopo la sua provocazione al congresso del Pdci di Rimini e le polemiche che lo hanno investito, facendo irritare anche l’Anm e spingendo il Consiglio superiore della magistratura ad aprire un fascicolo, al Punto il procuratore aggiunto di Palermo racconta che ne è valsa la pena. A chi, poi, lo vorrebbe in politica, magari come sindaco del capoluogo siciliano, risponde «no grazie», e al nuovo governo chiede ascolto e dialogo per continuare a lottare contro Cosa Nostra.
Dottor Ingroia, le sue parole al congresso del Pdci le sono costate l’apertura di un’inchiesta da parte del Csm. Ne è valsa la pena definirsi un “partigiano della Costituzione”?
«Per ora si parla dell’apertura di un fascicolo del Csm per una presunta incompatibilità ambientale, anche se non ho ancora capito con chi. Comunque sì, ne è valsa la pena, ne sono assolutamente convinto. Credo ne valga la pena in ogni occasione nella quale c’è modo di esprimere la propria posizione di difesa della costituzione, dei suoi principi e del diritto di ogni cittadino, magistrati compresi, di svolgere un ruolo di difesa della Carta costituzionale. In qualunque sede e a qualunque costo. Ho giurato sulla costituzione e la difenderò sempre, anche a costo di essere investito dalle polemiche ogni qualvolta che mi trovo a difenderla. Come ho già detto sono abbastanza sereno, sono convinto di aver esercitato un mio diritto e perciò non ho nulla da temere».
Ma non crede che iniziative di questo tipo rischino di dare troppi argomenti a quanti puntano il dito contro le toghe politicizzate?
«Sì, sono consapevole che c’è questo rischio. Tuttavia non mi rassegno che di fronte al rischio di accuse strumentali e pretestuose debbano innescarsi meccanismi di autocensura, e quindi, di fatto, un arretramento rispetto ai nostri sacrosanti diritti. Non solo come magistrato, ma non intendo rassegnarmi anche come cittadino. Non posso e non devo rinunciare ai miei diritti soltanto perché c’è qualcun altro che, in modo pretestuoso e strumentale, afferma che ogni volta che esercito questo diritto sto commettendo un abuso. Essendo il mio un diritto, e non un abuso, rivendico, perdoni il gioco di parole, il diritto di esercitare ogni mio diritto». ...continua a leggere "In trincea col partigiano Ingroia"