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Le mafie si nutrono di «sacche di opacità ed ambiguità». Scriveva così, a marzo di quest’anno, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a Don Luigi Ciotti e alla sua associazione Libera, ricordando le vittime di Cosa nostra e l’importanza della società civile nella lotta contro la criminalità organizzata. E’ lo stesso Napolitano che spiazza tutti, affidando all’Avvocato generale dello Stato l’incarico di rappresentare la Presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione annunciato dinanzi alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo. Il tema è quello della trattativa tra Stato e mafia, la causa sono quelle intercettazioni che tanto hanno infastidito e messo in difficoltà il Colle nelle scorse settimane. La vicenda è nota. Ad innescarla, le conversazioni telefoniche tra Nicola Mancino (indagato per falsa testimonianza nell’ambito dell’inchiesta palermitana) e il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio. Una richiesta di soccorso da parte di un indagato, poi girata dal Colle al procuratore generale della Cassazione. Vicenda nella quale spuntano anche alcune intercettazioni indirette (perché sotto controllo era il telefono del privato cittadino Mancino), in cui sarebbe stata registrata la stessa voce di Napolitano. E che ora sono al centro del conflitto sollevato dall’avvocatura dello Stato. Il Colle cita Luigi Einaudi, per motivare la decisione, essendo suo dovere evitare che si pongano «nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». ...continua a leggere "Quello “strano” conflitto sul Colle"

In quel 19 luglio di lacrime e morte, tra le lamiere roventi e l’odore del tritolo sporco di sangue, si sarebbe potuto immaginare un finale diverso. Magari come questo: «Ecco via d’Amelio con un’ampia zona in cui è vietato il parcheggio davanti al civico 19-21. E’ un paesaggio tipico di Palermo di quegli anni; la casa, infatti, è un obiettivo sensibile, ci abita la madre del giudice Borsellino e il giudice viene spesso a trovarla. La sua scorta ha da tempo individuato quella zona come un punto ideale per commettere un attentato. E il giudice Paolo Borsellino, come tutti sanno, è il principale obiettivo di Cosa nostra. L’acume, la professionalità e la dedizione degli agenti, il lavoro dei servizi segreti, la solidarietà popolare contro la mafia hanno permesso la recinzione di quel tratto di strada, e nessuno ha protestato troppo per i disagi nei parcheggi. Così è stata protetta la vita del procuratore nazionale antimafia Paolo Borsellino…». Ma come scrive nel suo ultimo libro (Il vile agguato) Enrico Deaglio, «non andò così» e «lo sappiamo bene». Ci sono altre cose, invece, che non sappiamo affatto: perché dopo vent’anni esatti di depistaggi e menzogne, sull’assassinio di Borsellino e degli uomini della sua scorta, in uno Stato che la rivendica a parole ma la ostacola nei fatti, la verità non è stata ancora accertata. ...continua a leggere "Strage di via D’Amelio, vent’anni senza verità"

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L'anno delle stragi, del delitto Lima (12 marzo), di Capaci (23 maggio) e via D’Amelio (19 luglio). Anno di grande fermento politico: dalle dimissioni (28 aprile) del «picconatore» Francesco Cossiga, che lascia il Quirinale prima della scadenza del suo settennato aprendo la strada all’ascesa al Colle di Oscar Luigi Scalfaro, fino alle elezioni politiche. Sono passati vent’anni da quel maledetto 1992: si cercano ancora verità e risposte. Sull’escalation di una sanguinaria stagione delle stragi che, dalla Sicilia, allungherà la sua scia di morte sul “continente”. Dalle bombe in via dei Georgofili a Firenze (nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993) a quelle contro le chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma e in via Palestro a Milano (27 luglio). E’ lo scenario nel quale, secondo i magistrati della Procura di Palermo, l’aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, che hanno firmato l’avviso di chiusura delle indagini, si dispiega e va in scena la trattativa Stato-mafia al centro della loro inchiesta.
IL DELITTO LIMA: L’INIZIO
Dai verbali d’interrogatorio dei dodici indagati e delle persone sentite come testimoni, i magistrati di Palermo cercano di fare luce sulla consecutio temporum che si instaura tra i fatti di sangue firmati dalla mafia e l’evoluzione del quadro politico nazionale di quegli anni. In particolare, sulle ripercussioni del delitto Lima. «L’uccisione del parlamentare non è l’inizio della trattativa ma è un omicidio di rottura dei rapporti con la classe politica – chiarisce il procuratore aggiunto Antonio Ingroia in una recente intervista a Libero –. L’aggiustamento del maxiprocesso era fallito e la mafia voleva dare una sanzione». ...continua a leggere "All’ombra della trattativa"

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«Sono uno scapestrato? Sono solo un po’ sfigato e sono il figlio di un politico mafioso, non il solo però. Mi sento responsabile, ma sappiate che quella trattativa è costata la vita al giudice Borsellino e portava in alto, molto in alto. Talmente tanto che ancora oggi potrebbe avere un effetto dirompente». Lo sfogo di Massimo Ciancimino, il controverso figlio di Don Vito, sindaco mafioso del “sacco” di Palermo, uomo chiave dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia, arriva via Facebook, nel cuore della notte, dopo aver letto un articolo de Il Punto di qualche settimana fa (Palermo Top Secret, ndr) e mentre le trascrizioni delle ansiose telefonate di Nicola Mancino al consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, fanno il giro del mondo. Ciancimino junior lo immaginiamo con un iPad tra le mani, chiuso nella sua casa, nel cuore elegante di Palermo, impegnato a leggere il malloppo di atti giudiziari allegato all’avviso di conclusione delle indagini con cui la Procura del capoluogo siciliano si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per una dozzina di indagati eccellenti. Tra loro c’è anche lui che in quell’aggettivo, «scapestrato» appunto, come lo avevamo definito sulle pagine del nostro settimanale, proprio non riesce a riconoscersi. Carte scottanti, che, secondo i magistrati di Palermo, Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, raccontano come lo Stato, negli anni del tritolo, provò a scendere a patti con la mafia stragista, attraverso la mediazione sotterranea di politici e di alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri. Carte che contengono tutto quello che Ciancimino aveva cominciato a ricostruire con gli inquirenti quattro anni fa, ridando voce, un po’ alla volta, alle parole di suo padre. E che, nell’ambito della stessa inchiesta palermitana, gli sono costati due capi di imputazione: associazione a delinquere di stampo mafioso e calunnia. ...continua a leggere "«Borsellino ucciso dalla trattativa»"