Sono molti i fronti e gli spunti investigati, legati al possibile ruolo giocato dai servizi segreti nel caso Moro, nella lunga relazione di metà mandato presentata recentemente dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’assassinio dell’ex presidente della Dc. In più punti del voluminoso documento i membri dell’organismo presieduto da Giuseppe Fioroni, dopo un anno di audizioni e consulenze, tornano a sottolineare numerose ambiguità e misteri che da sempre incrociano la strada dell’affaire Moro. Strane presenze, auto sospette e luoghi che avrebbero un significato diverso rispetto a quanto finora scritto. Tutti elementi su cui, a parere dei parlamentari, anche la magistratura potrebbe tornare a indagare, provando così a riscrivere un pezzo di storia.
1. Le carte straniere top secret: per analizzarle serve il consenso dei servizi. Segreto e servizi segreti sono alcune delle parole che più si ripetono nella relazione, a partire dalle informazioni provenienti dalle intelligence straniere di cui la Commissione vorrebbe entrare in possesso. Un patrimonio di informazioni particolarmente consistente e tuttora inesplorato che, tuttavia, per essere consultato e analizzato, richiede una complessa procedura di declassifica e il consenso, non scontato, dei servizi di sicurezza che hanno redatto i singoli atti.
Dentro le veline degli 007 americani, francesi e inglesi, ma anche russi e israeliani, potrebbero esserci elementi inediti e forse anche decisivi per arrivare alla verità su uno dei misteri più longevi della storia repubblicana.
2. Il colonnello Guglielmi: l'addestratore di Gladio nei pressi di via Fani. Nel corso delle audizioni sono emersi riferimenti sulla presenza del colonnello Camillo Guglielmi, soprannominato “Papà”, nei pressi di via Fani in un orario prossimo a quello della strage. La presenza dell’ufficiale, in forza al Sismi, il servizio segreto militare, ufficialmente in epoca immediatamente successiva al sequestro di Aldo Moro, è posta in relazione anche rispetto al ruolo di una motocicletta Honda avvistata da diversi testimoni oculari nel luogo dell’agguato. ...continua a leggere "Sequestro Moro, i sospetti sui servizi in otto punti"
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Anti-terrorismo, l’Italia studia una super intelligence
Gli ultimi attentati e il crescendo di paura dagli Stati Uniti alla Cina richiedono uno sforzo sempre maggiore sul fronte della prevenzione. Il Giubileo, iniziato l’8 dicembre a Roma, mette alla prova i sistemi di sicurezza italiani, dalle forze dell’ordine all’intelligence. E il 17 dicembre sono arrivate anche le minacce - con una lettera scritta in arabo recapitata al dicastero - al ministro della Giustizia Andrea Orlando.
Forse è arrivato il momento anche di creare una struttura investigativa ad hoc che si occupi di anti-terrorismo. Una super procura esiste: è nata ampliando i poteri della Direzione nazionale antimafia (Dna) guidata da Franco Roberti, che da febbraio 2015 ha ricevuto, con un decreto legge, anche le competenze aggiuntive in materia di coordinamento del contrasto al terrorismo, estese anche a tutte le Direzioni distrettuali antimafia (Dda). Ma manca un braccio operativo.
Attualmente le competenze in materia di anti-terrorismo già ci sono, però sono frammentate tra vari reparti investigativi. Il Ros dell’Arma dei carabinieri e lo Sco della polizia di Stato sono le due élite in prima fila nelle indagini contro il terrorismo, insieme alle Digos, alle divisioni della vecchia polizia politica attive in tutte le questure e ai nuclei informativi dell’Arma presenti in tutti i comandi territoriali. Poi ci sono le due agenzie di intelligence, Aise e Aisi, coordinate dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), che si occupano di analisi e prevenzione delle minacce.
La ricetta giusta secondo l’ex investigatore Michele Giuttari - già capo della squadra mobile di Firenze, per anni in prima linea contro la mafia e poi a capo del Gruppo investigativo delitti seriali che lo vide indagare anche sui crimini del Mostro Pietro Pacciani - è creare una nuova struttura interforze. ...continua a leggere "Anti-terrorismo, l’Italia studia una super intelligence"
Terrorismo, il dibattito sull’uso del trojan di Stato
Nell’agenda del governo, nelle pieghe di un provvedimento da adottare sull’onda dell’emergenza terrorismo, potrebbe rispuntare l’impiego del cosiddetto “trojan di Stato”. La pratica, molto invasiva, di remote computer searches che consentirebbe all’intelligence di sorvegliare le comunicazioni elettroniche “perquisendo” a distanza ogni tipo di dispositivo connesso alle rete.
A marzo era stato il deputato di Scelta Civica, Stefano Quintarelli, ad accorgersi che nel decreto legge antiterrorismo, approvato in Senato due settimane dopo, era spuntata una norma molto pericolosa che legalizzava l'utilizzo di software, chiamati captatori occulti, in grado di introdursi in computer, smartphone e tablet e di acquisire, da remoto, dati sensibili di ogni tipo.
Quintarelli, prima che la norma fosse ritirata, l’aveva definita «una delle operazioni più invasive che lo Stato possa fare», perché il remote computer searches non è una semplice intercettazione, come quelle telefoniche o ambientali, bensì una vera e propria «ispezione, una perquisizione, un'intercettazione e un'acquisizione occulta di dati personali».
Qualcosa di molto simile ai software spia commercializzati da Hacking Team, la società milanese finita nella bufera a luglio dopo l’attacco hacker che ha svelato le potenzialità del suo sistema Galileo venduto in tutto il mondo.
Non tutti sono contrari all’utilizzo dei “trojan di Stato”, in primis i servizi segreti, che da tempo sollecitano di mettersi al passo con i tempi e con le altre intelligence straniere che utilizzano abitualmente sistemi molto invasivi per “rastrellare” stock di metadati, cioè l’insieme di informazioni che identificano chi c’è dietro un computer o uno smartphone, cosa sta comunicando e dove si trova. ...continua a leggere "Terrorismo, il dibattito sull’uso del trojan di Stato"
Sorveglianza di massa: limiti e controversie
Gli italiani si abituino ai problemi di connessione, ai frequenti black out delle reti, ai social network e alle app per messaggistica temporaneamente inaccessibili e alle difficoltà di effettuare chiamate, anche se lo smartphone dice che c’è abbastanza campo. Saranno questi i “disservizi” più frequenti a cui assisteremo nei prossimi mesi, in particolare nelle grandi città. È il prezzo che, con ogni probabilità, sarà necessario pagare per difenderci dalla minaccia terroristica, anche se l’efficacia della sorveglianza di massa è tutta da dimostrare, come abbiamo imparato dall’11 settembre 2001 in poi.
Poco male per 9 italiani su 10 che, secondo un sondaggio Demos per il quotidiano La Repubblica, si dicono favorevoli a un aumento della sorveglianza di strade e luoghi pubblici attraverso le telecamere, e la metà di essi (il 46%) vorrebbe rendere più facile alle autorità anche il controllo sulle comunicazioni elettroniche, dalle e-mail alle telefonate.
Tuttavia il tema è delicato, c’è in ballo la privacy e la libertà di tutti coloro che non hanno nulla a che fare con il jihad. Il Giubileo impone uno straordinario sforzo per gli apparati della sicurezza nazionale, che comprende un uso intensivo delle tecnologie di sorveglianza di massa nei confronti di precisi target, ma anche del resto dei cittadini che ogni giorno utilizzano il cellulare o il computer per comunicare. ...continua a leggere "Sorveglianza di massa: limiti e controversie"