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Quattordici anni lontani, distanti uno dall’altro. Le morti di Aldo Moro e di Paolo Borsellino sembrano essere legate dal tradimento. Di quella parte di Stato che entrambi, con ruoli diversi difendevano. E per il quale hanno, alla fine, dato la vita. Le lettere scritte da Moro durante i 55 giorni della prigionia sono un potente e implacabile atto d’accusa per la politica italiana. Le ultime rivelazioni che giungono da Caltanissetta sugli ultimi giorni di Borsellino rappresentano un colpo micidiale per la credibilità della lotta alla mafia.
C’è un luogo ben preciso e ricco di significati dove lo Stato e l’anti Stato si incontrano. È il Cafè de Paris, da simbolo della Dolce Vita romana negli Anni Sessanta a emblema dell’infiltrazione criminale nella Capitale nei nostri giorni. A pochi giorni di distanza dal 16 marzo 1978, giorno del sequestro di Aldo Moro, Francesco Fonti – oggi meglio conosciuto come il pentito che ha raccontato le vicende delle navi dei veleni - viene convocato dalla sua cosca, Romeo, a San Luca e gli viene detto di andare a Roma. Dalla Dc calabrese erano venute pressanti richieste alle cosche per attivarsi al fine della liberazione di Moro. Pressioni – ricorda Fonti - erano venute anche dalla segreteria nazionale e dal segretario Benigno Zaccagnini, morto a Ravenna il 5 novembre 1989. Fu proprio nel locale di via Veneto, che Fonti incontrò l’esponente democristiano: «E’ un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico – disse il politico - e non avrei mai potuto pensare che oggi potessi essere seduto davanti a lei in qualità di petulante, ma è così». Fonti ricorda come Zaccagnini non facesse nulla per nascondere il proprio “schifo”: «Non sono mai sceso a compromessi - riprese - ma se sono venuto ad incontrarla significa che il sistema sta cambiando, faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva, ci dia una mano e la Dc di cui mi faccio garante saprà sdebitarsi». Prima di andarsene, disse: «Non ci siamo mai incontrati se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona lo dica all’agente Pino». Quello che Zaccagnini non sapeva era che Fonti, uomo organico all’organizzazione criminale, da nove anni frequentava con profitto le stanze di Forte Braschi. E che già conosceva l’agente Pino. Moro non venne salvato. Certo non per colpa di Fonti che, anzi, tornato in Calabria, riferì delle ricerche avviate. Ma venne bruscamente stoppato: «La vicenda non interessa più», gli fu detto. ...continua a leggere "Da via Fani a via D’Amelio, il filo rosso che unisce le morti di Moro e Borsellino"

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Roma, via della Grande Muraglia Cinese 46, 16 luglio 1995. È domenica e a Roma è una giornata molto calda. Il tenente colonnello dell’Esercito, Mario Ferraro, 46 anni, calabrese, distaccato al Sismi, esperto in informatica, traffici di armi e terrorismo internazionale, è in casa insieme alla sua compagna, Maria Antonietta Viali, per gli amici Antonella. Sono al quinto piano, in un attico nel quartiere Torrino, accanto all’Eur. La coppia è in assoluto relax dopo aver trascorso una giornata serena e scandita da poche e semplici azioni, ignari che quella sia la loro ultima domenica insieme. La mattina si sono alzati tardi, intorno alle undici, hanno fatto colazione e poi sono andati sul terrazzo, portando con loro riviste, bibite e gli amati Toscani, a prendere il sole fino alle quattordici. Sono riscesi nell’appartamento per pranzare e hanno trascorso gran parte del pomeriggio in casa a ridere, scambiarsi baci, carezze e fare programmi per il futuro. Verso le 19, quando il caldo è meno insopportabile, sono ritornati in terrazzo dove il ponentino, la brezza che arriva dal mare, comincia a rinfrescare l’aria e hanno giocato a scalaquaranta fin verso le venti quando Mario ha deciso di uscire a fare quattro passi. Mario ha infatti finito i suoi sigari, passione che ha in comune con la sua compagna e ha voglia di mangiare un gelato, per cui propone a Maria Antonietta di andare in tabaccheria e poi alla gelateria Giolitti, in viale Oceania. Lei vuole rimanere in casa per cui, dopo aver insistito un po', decide di uscire lo stesso, da solo. Fa la doccia, si veste sportivo con una polo e un paio di jeans e torna di nuovo in terrazzo per vedere se per caso Maria Antonietta ha cambiato idea. Lei è decisa a rimanere in casa a preparare la cena e poco prima che lui esca fa in tempo solo a chiedergli cosa vuole mangiare. ...continua a leggere "La strana morte di Mario Ferraro, agente del Sismi"

Chi manovrava le Brigate Rosse? Chi c’era dietro l’Istituto linguistico Hyperion di Parigi? E quali legami aveva la Hyperion con il terrorismo internazionale? Articoli, saggi, inchieste giudiziarie, sentenze, testimonianze: abbondano analisi e ricostruzioni della storia sulla più potente e sanguinaria organizzazione terroristica italiana, le Brigate Rosse. Eppure sono ancora molte le lacune, i passaggi non chiariti, i personaggi rimasti nell’ombra. Un nuovo saggio, in libreria da alcune settimane, tenta di fare luce su questi aspetti ripercorrendo la storia e le inchieste degli ultimi trent’anni. Lo firmano il giudice Rosario Priore, protagonista di alcuni dei più importanti processi della nostra storia, dall’attentato al Papa alla strage di Ustica, e il giornalista Silvano De Prospo. Lo fanno collegando a doppio filo la storia delle BR, sin dai suoi esordi, con quella di un gruppo di persone di cui ancora troppo poco si è scritto: Corrado Simioni, Duccio Berio e Vanni Mulinaris, fondatori agli inizi degli anni Settanta del Superclan – misteriosa organizzazione clandestina nata come costola delle Brigate Rosse – successivamente riparati a Parigi, e qui diventati insegnanti di lingue in un istituto, il centro Hyperion, su cui grava da decenni un sospetto: che fosse un centro di coordinamento dell’eversione internazionale.
Attraverso un meticoloso lavoro sulle fonti storiche e giudiziarie, “Chi manovrava le Brigate Rosse?” (Ed. Ponte alle Grazie, 12,41 euro) riesce a dare riscontro fondato all’ipotesi che le BR non agissero in autonomia, ma che dietro all’organizzazione si muovesse un reticolo d’interessi legato al terrorismo internazionale, agli apparati dello Stato italiano, al lavorio incessante dei principali Servizi stranieri. ...continua a leggere "Chi manovrava le Brigate Rosse?"

Dov’erano i servizi segreti? A Roma qualcosa non ha funzionato. Ed è qualcosa che va oltre la gestione dell’ordine pubblico. Sono mancate le informazioni, il lavoro info-investigativo, insomma il materiale d’intelligence, quello che gli analisti chiamano humint.
Perché, guardando le immagini della guerriglia urbana che ha assalito Roma il 15 ottobre, si ha la netta impressione che nessuno era preparato.
Quanti erano? Da dove venivano? Come si sono organizzati? Come hanno comunicano tra loro? Più o meno le stesse domande dell’alba del giorno dopo. Quello del classico “ormai è tardi” all’italiana.
Eppure di segnali, a volerli leggere, ce n’erano eccome. Bastava sbirciare nei soliti forum o digitare su Google la sequenza “Roma 15 ottobre”, per trovare traccia della chiamata, e tra le righe anche di quanto sarebbe accaduto in piazza.
Sono mancate le informazioni, quelle che l’intelligence dovrebbe fornire a chi sta sul campo. Prevedere un fatto, analizzarne l’evoluzione, tracciarne i confini, questo, a Roma, è mancato. L’assenza d’informazioni, o se volete di soffiate, non è una novità. Il vivaio di fonti negli ambienti dell’antagonismo non è più quello di una volta.
I tagli e la riforma dei Servizi, quella che nel 2007 ha spazzato via Sisde e Sismi lasciando il posto ad Aisi e Aise, ha prodotto anche questo. Il Servizio segreto civile, più dei cugini del controspionaggio militare, da quella riforma ne è uscito con le ossa rotte e oggi, a distanza di quattro anni, può contare su pochi uomini, poche tecnologie e canali informativi prosciugati da anni.
La nostra intelligence annaspa, è affannata, incapace di dare risposte e prevedere scenari. Abbiamo buoni analisti in campo, ma mancano i segnali da interpretare. Risultato: nelle informative dei Servizi ci finisce solo il frutto di analisi fatte al computer, un collage di open source intelligence, insufficiente e inadeguato. Non c’è altra spiegazione.
E nel “caso Roma” il fallimento dei servizi segreti sta tutto nelle poche righe licenziate poche settimane fa (il 22 settembre) dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza del prefetto Gianni De Gennaro: «In relazione alle indiscrezioni di stampa concernenti la manifestazione programmata in occasione della giornata internazionale di protesta contro governi e multinazionali, prevista per il prossimo 15 ottobre, il DIS precisa che l’Agenzia per la sicurezza interna (AISI) sta fornendo il consueto contributo informativo alle autorità preposte alla gestione dell’ordine pubblico. Dal contesto delle notizie ad oggi acquisite, pur non rilevandosi elementi di carattere emergenziale, si evidenzia l’esigenza di un attento monitoraggio e ulteriore approfondimento dell’evolversi della situazione».
Non sappiamo se l’attento monitoraggio è stato compiuto dagli agenti di via Lanza, ma una cosa è certa: a chi era in piazza il 15 ottobre è mancato un elemento importante. Lo ha detto anche un black block a due giornalisti di La Repubblica: bastava ascoltarli, leggere i loro messaggi in rete e interpretare il loro linguaggio.
Non farlo, o farlo inaguatamente, ha condizionato le scelte e costretto chi operava in piazza a improvvisare.

di Fabrizio Colarieti per Notte Criminale [link originale]