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securityNelle grandi aziende è prassi sempre più consolidata. Le security private assomigliano sempre di più a vere e proprie strutture parallele di intelligence. "Eserciti Spa" con grandi disponibilità di risorse tecnologiche, soldati e know how al servizio di un solo uomo: il padrone. Lo dimostrano circa quattro anni, per affacciarsi solo sul recente passato, di scandali e indagini. In più ci si è messo anche il Governo che a colpi di timbri “top secret” ha di fatto certificato che certi rapporti, tra pubblico e privato, esistono e non sono poi così infrequenti.
Le consorterie della sicurezza privata, al soldo delle grandi aziende, violano ogni giorno la legge e la privacy dei propri dipendenti, dei clienti, dei concorrenti, dei cittadini e di chiunque, anche per pura coincidenza, inciampi nei loro affari. Li schedano, li intercettano, sbirciano nella loro posta elettronica, li pedinano e li filmano. In nome di una “ragione aziendale”, che assomiglia tanto alla “ragione di Stato”, che calpesta ogni diritto e che va oltre, anche l’immaginabile. È l’esercito degli ex, delle agenzie investigative e delle risk agency. Pubblici dipendenti in aspettativa, ex carabinieri, ex poliziotti, ex finanzieri, ex spioni. Dopo la pensione o a metà carriera, i più furbi, hanno una chance per non annoiarsi: diventare un consulente nel ramo della sicurezza privata. Un esercito invisibile di “barbe finte” pronte a tutelare gli interessi dei top manager e ad accontentare ogni loro capriccio.
Sono strutture efficienti, snelle, flessibili, soggette ad alcun controllo, se non quello dei vertici aziendali. Rispecchiano un modello ormai consolidato negli Stati Uniti, dove la sicurezza pubblica e privata vanno ormai a braccetto, anche nei teatri di guerra. Producono veline, dossier, analisi e rumors, a volte a metà strada tra il pettegolezzo e il gossip. Tutto fa brodo e un giorno potrebbe servire. Strutture che, in nome della legge del ricatto, che vige in un mercato ormai avvelenato, in alcuni casi hanno alimentato pericolose “macchine del fango”. Utilizzare ogni mezzo per raggiungere ogni tipo di obiettivo, questa la filosofia aziendale di chi si circonda di un esercito privato.
In quei dossier c’è dentro di tutto: dalle corna alle debolezze del diretto concorrente, passando per le sempre utili informazioni, meglio se piccanti, su politici, magistrati e, perché no, anche giornalisti. Una brodaglia maleodorante, pronta all’uso, che riposa negli archivi e nei server delle grandi corporation. La legge, quella repubblicana, vieta le schedature, le banchi dati, la raccolta delle informazioni con mezzi e tecniche che solo la polizia giudiziaria con l’avallo della magistratura può utilizzare. Ma a leggere le carte - quelle che raccontano prodezze e marachelle borderline delle security aziendali - ci si rende conto che la legge vige solo fuori dalle mura delle aziende. Se poi è necessario violarla, anche al di fuori da quei confini, non c’è problema, per il bene della “ditta”, ci si tappa il naso.
Le cronache raccontano anche che i Servizi, quelli che dovrebbero difendere il Paese, più di una volta hanno strizzano l’occhio ai Servizietti privati. Basta ricordare lo scandalo che coinvolse negli anni Settanta il famoso 007 privato Tom Ponzi (assolto anni dopo). La storia è piena di strani rapporti, a base di scambi bilaterali di informazioni, favori e dossier, tra le security private e i Servizi segreti. Un’intimità tanto stretta quanto insindacabile che ha spinto il Governo, il 22 dicembre scorso, ad apporre il segreto di stato sui rapporti tra un apparato statale, il Sismi (oggi Aise), e un’azienda privata, Telecom Italia. La vicenda è nota e ha visto il Presidente del Consiglio confermare il “top secret” opposto dal numero tre del controspionaggio militare, Marco Mancini, davanti al gup del tribunale di Milano che lo stava processando (in concorso con altri) per rivelazione di segreto d'ufficio, associazione a delinquere e corruzione nell’ambito del procedimento sui dossier illegali dell’ex sicurezza Telecom. Mancini, per difendersi, dovrebbe violare il segreto, parlando della sua attività e dei suoi rapporti che avrebbe avuto con Giuliano Tavaroli e i suoi colleghi al soldo di Marco Tronchetti Provera. Il Premier, l’unico che poteva avallare il silenzio dell’agente segreto, ha decretato che tali rapporti - e più in generale i criteri di gestione e gli assetti organizzativi dei Servizi, in quanto elementi riferibili “alle relazioni internazionali tra servizi e agli interna corporis degli organismi informativi” - sono segreti. Violare il segreto - ha scritto il premier al gup Mariolina Panasiti - “potrebbe da un lato minare la credibilità degli organismi informativi nei rapporti con le strutture collegate, dall'altro pregiudicarne la capacità ed efficienza operativa, con grave nocumento per gli interessi dello Stato”.
Un’altra storia, anch’essa recente, riguarda poi, un’altra compagnia telefonica, la Wind. È il caso di Salvatore Cirafici, agli arresti domiciliari su ordine del gip di Crotone dal 12 dicembre scorso. L’ex responsabile delle intercettazioni telefoniche e dei rapporti con l’autorità giudiziaria della compagnia dell’egiziano Naguib Sawiris, secondo l’accusa, avrebbe utilizzato e fornito ad altri sim che risultavano inesistenti, quindi potenzialmente sicure, e spifferato a un indagato che il suo cellulare era sotto controllo. Tutto questo è emerso nel corso di un’indagine su presunte irregolarità nella realizzazione della centrale turbogas di Scandale nel crotonese che vede indagati, tra gli altri, anche l’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio e l’ex presidente della Regione Calabria, attuale vicepresidente dell’autority per la Privacy, Giuseppe Chiaravalloti.
L’ultima prodezza riguarda un’altra internal security, quella della Coop. Una storia davvero inquietante, che sembra uscita da un romanzo di Ian Fleming, i cui contorni sono stati rivelati dalle colonne di Libero, da Gianluigi Nuzzi e di cui, a quanto pare, la magistratura dovrà occuparsi. Secondo quanto ha riferito il quotidiano, infatti, direttori di supermercati, manager, sindacalisti, ma anche cassieri e magazzinieri di diverse Coop della Lombardia, sarebbero stati spiati dall’azienda, con l’utilizzo di microspie, microtelecamere e “sonde” nei centralini telefonici. Si parla di centinaia di conversazioni ascoltate, registrate, filtrate e analizzate, in nome, così pare, di un altrettanto scellerata politica aziendale.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 4 febbraio 2010 [pdf]

intercettazioniPrimi test per il “grande orecchio”. La centrale unica per le intercettazioni telefoniche, ambientali e informatiche - che dovrebbe mandare in soffitta l’attuale sistema fondato sull’attività di una quarantina di società private che operano per conto delle procure - sembra stia muovendo i primi passi tra grandi interessi e server colabrodo.
Tuttavia del progetto Sispi (acronimo di Sistema sicuro per le intercettazioni), presentato nel 2007 all’allora Guardasigilli Clemente Mastella, se ne sa ancora davvero poco. È un made in Italy, ci sta lavorando il gruppo Finmeccanica, ma non solo, prevede l’impiego di una trentina di server distribuiti su tutto il territorio nazionale in grado di inoltrare i “flussi” di fonia e dati a tutte e 166 le procure. Un’unica regia, di fatto in mano ai privati, che dovrebbe garantire la massima riservatezza alle indagini della magistratura e abbattere i costi delle operazioni di ascolto. Non se ne sa altro, in quanto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha “secretato” i contenuti del progetto che, in via sperimentale, sarebbe già ai nastri di partenza. Nel 2007 le procure italiane, secondo i dati diffusi da via Arenula a ridosso dell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, hanno intercettato più o meno 128mila “bersagli” spendendo complessivamente (per noleggio apparati e oneri imposti dai gestori telefonici) 226 milioni di euro. Tanti danari, questo sì, ma gli italiani “spiati” non sarebbero alcuni milioni, come dichiarò lo scorso anno lo stesso Alfano che parlò di circa 3 milioni di cittadini intercettati nell’arco di un anno. Il ministro spiegò di essere arrivato a quella affrettata conclusione con un calcolo empirico: cioè moltiplicando il numero dei decreti di intercettazione per il numero medio di telefonate che una persona fa o riceve in un giorno. Non è così: gli intercettati sono molti di meno, e di gran lunga. Ogni decreto è un’utenza, e spesso gli indagati ne hanno più di una tra fisse e mobili, e inoltre ci sono le proroghe, che richiedono, a loro volta, ognuna un altro decreto. Il numero degli intercettati, perciò, sfiora al massimo le 70mila unità l’anno.
Oggi funziona così: individuata l’utenza da spiare il pubblico ministero richiede al giudice per le indagini preliminari l’autorizzazione a disporre le operazioni di ascolto, poi lo stesso pm incarica una società privata che effettua materialmente le intercettazioni (telefoniche, informatiche, ambientali e gps) noleggiando alla procura gli apparati necessari, dopo aver chiesto alle compagnie telefoniche (Telecom Italia-Tim, Vodafone, Wind e Tre) di traslare a pagamento, su apposite “linee d’appoggio” che raggiungono le sale di ascolto delle procure, il flusso fonia e dati. Il grosso dei danari se ne va proprio per il noleggio degli apparati (182,6 milioni nel 2007) con una spesa che può variare anche di molto a seconda dei casi. Per ascoltare un telefono si possono spendere, infatti, cifre che vanno dai 3,85 ai 29 euro al giorno. Piazzare una microspia, con un’intrusione in auto o in casa, può costare dai 19 ai 195 euro al giorno. Un business enorme, che accredita sul mercato le cinque società leader del settore: Area, RadioTrevisan, Sio, Innova e Rcs. Tre di queste (la Sio Spa di Cantù, la Rcs Spa di Milano e la Area Spa di Binago), fino al luglio scorso, quando Alfano si è trovato a dover saldare i debiti temendo lo sciopero, erano creditrici nei confronti dello Stato di oltre 140 milioni di euro.
Stando a quanto emerso nelle scorse settimane (Ansa delle 13.52 del 3 dicembre), un manager e un tecnico informatico della Rcs Spa di Milano, acronimo di Research control system, che da quattordici anni noleggia apparati per le intercettazioni alle procure italiane, sarebbero indagati per «rivelazione e utilizzazione del segreto d’ufficio». In estrema sintesi si ipotizza che i due avrebbero violato l’archivio informatico della procura di Milano, rubando da un computer di un magistrato alcuni file (forse audio) di un'inchiesta che coinvolge Silvio Berlusconi. L’inchiesta in questione è quella sulla presunta distrazione di fondi della società Mediatrade, in cui il premier è indagato per appropriazione indebita. Secondo il pm Massimo Meroni, che conduce le indagini sul furto di dati, la longa manus avrebbe “sniffato” su commissione quei file dai contenuti ancora top secret.
Un secondo filone, a cui lavorano gli inquirenti milanesi, coinvolgerebbe la Research control system anche in un’altra vicenda. Tutto ruota attorno all’ulteriore sospetto che i tecnici della società possano aver fornito nel dicembre del 2005 a “Il Giornale” il file dell’intercettazione telefonica nella quale Piero Fassino chiedeva, all’ex numero uno di Unipol Giovanni Consorte, «Ma allora, siamo padroni della banca?». Una grana che ha coinvolto direttamente l’AD della Rcs, Roberto Raffaelli, che il 9 dicembre in procura ha negato ogni addebito affermando di non aver fornito alcun file a Silvio Berlusconi o a “Il Giornale”.
Indubbiamente due brutte storie, se le accuse venissero confermate, ma è bene chiarire che le vicende non riguardano la Rcs in quanto tale, ma il comportamento dei suoi dipendenti. Come d’altra parte anche la questione delle intercettazioni in quanto tali non è in discussione: si tratta di un fondamentale strumento di ricerca della prova oltre che, in molti casi, di un mezzo irrinunciabile per garantire la sicurezza nazionale. Altra questione, invece, sono gli eventuali abusi. Ma confondere l’eccezione con la regola finisce spesso per alimentare paure che solo chi ha qualcosa da nascondere dovrebbe realmente avere.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 24 dicembre 2009 [pdf]

Scoop pericolosi. «Ecco come le anticipazioni della stampa hanno fatto morire l’inchiesta “Why not”». Parla Gioacchino Genchi, consulente del pm Luigi de Magistris. Rimosso dall’incarico dopo la bufera sul ministro Mastella.

Se fosse tutta colpa di uno scoop pilotato? E se quell’indagine fosse andata fino in fondo, cosa sarebbe accaduto? Un lettore inglese direbbe semplicemente “why not”, perché no.
Sembra che a Catanzaro le cose siano andate più o meno così. C’erano due personaggi da fermare a tutti i costi: un giudice troppo perspicace, Luigi de Magistris, e un superconsulente dall’udito sopraffino, Gioacchino Genchi. Due che lavorano in segreto, lontano dal clamore. Il giudice indaga da dicembre 2006 su un colossale intreccio politico-affaristico-massonico, teso a distrarre fondi europei. Il cyber-poliziotto Genchi arriva a Catanzaro a fine marzo.

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