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martelli«Avemmo la sensazione che tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino ci fossero rapporti stretti ma se avessi avuto sentore che c'era una trattativa in corso tra pezzi dello Stato e la mafia, avrei fatto l'inferno». Claudio Martelli nell’estate del '92, a cavallo tra gli eccidi di Capaci e di via D’Amelio, era a conoscenza che c'erano in corso contatti “anomali” per fermare le stragi tra alcuni ufficiali del Ros e l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino.
L’ex ministro socialista lo ha confermato l’8 aprile, diciotto anni dopo quella stagione di sangue in un’aula di tribunale, incalzato dalle domande dei pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. Ha parlato per due ore, in qualità di testimone, al processo in corso a Palermo contro il generale del Ros, Mario Mori, e il colonnello Mauro Obinu, entrambi accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano, nell'ottobre del ’95, a Mezzojuso. L'ex Guardasigilli conferma che venne a conoscenza che gli ufficiali dell’Arma erano in contatto con Ciancimino, già a fine di giugno del '92, quando l'allora direttore degli Affari penali, Liliana Ferraro, gli riferì quello che aveva appreso parlando con il capitano del Ros, Giuseppe De Donno.
«La Ferraro - ha aggiunto Martelli deponendo al processo - mi raccontò di avere invitato De Donno a rivolgersi a Borsellino. Praticamente la Ferraro mi fece capire che il Ros voleva il supporto politico del ministero a questa iniziativa. Io mi adirai - ha aggiunto Martelli - perché trovavo una sorta di volontà di insubordinazione della condotta dei carabinieri. Avevamo appena creato la Dia, che doveva coordinare il lavoro di tutte le forze di polizia e quindi non capivo perché il Ros agisse per conto proprio». Martelli, rispondendo alle domande dei pm palermitani, si infuria ancora oggi e tira in ballo anche l’allora ministro dell’Interno (Nicola Mancino, che però nega) da lui stesso informato di quanto aveva appreso dalla Ferraro. «Nell'ottobre del 1992 - prosegue il racconto di Martelli - Ferraro mi disse di avere visto De Donno e che questi le aveva chiesto di agevolare alcuni colloqui investigativi tra mafiosi detenuti e il Ros e se c'erano impedimenti a che la procura generale rilasciasse il passaporto a Vito Ciancimino. Dare credibilità a Ciancimino - ha aggiunto - per cercare di catturare latitanti era un delirio. Per questo chiamai l'allora procuratore generale di Palermo Bruno Siclari esprimendogli la mia contrarietà alla storia del passaporto». In soldoni il Ros, secondo Martelli, agiva di testa propria e senza l’avallo della procura per mera presunzione: «Non ho mai pensato che Mori e De Donno fossero dei felloni, ma che agissero di testa loro. Che avessero una sorta di presunzione o orgoglio esagerato. Sono convinto che lo scopo del Ros, fermare le stragi, fosse virtuoso ma che il metodo usato - ha aggiunto Martelli -, contattare Ciancimino senza informare l'autorità giudiziaria, fosse inaccettabile».
Tuttavia Nicola Mancino, attuale vice presidente del Csm, pochi minuti dopo la fine dell’udienza in cui ha testimoniato Martelli, nega all’Ansa di essere stato informato dall’ex Guardasigilli dei contatti tra Ros e Ciancimino: «Né Martelli né altri mi parlò mai di contatti con Ciancimino - afferma Mancino. Ho sempre escluso, e coerentemente escludo anche oggi, che qualcuno, e perciò neppure il ministro Martelli, mi abbia mai parlato della iniziativa del colonnello Mori del Ros di volere avviare contatti con Vito Ciancimino. Ribadisco che, per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell'Interno, nessuno mi parlò mai di possibili trattative con la mafia». Le parole di Mancino non sono una novità. In diverse occasioni ha detto che lo Stato non trattò ma, di quella torbida stagione, nega anche un’altra circostanza: l’incontro con il giudice Paolo Borsellino che ci sarebbe stato proprio il giorno del suo insediamento al Viminale (il 1 luglio ’92). Il giudice quella mattina, mentre negli uffici romani della Dia stava raccogliendo le confessioni del pentito Gaspare Mutolo, ricevette una telefonata e sospese l’interrogatorio per recarsi, pare, proprio al Viminale a incontrare Macino. Quando tornò da quell’incontro, come confermò anche Mutolo, Borsellino era visibilmente agitato tanto da mettersi in bocca due sigarette contemporaneamente. Mancino, fino a oggi, non ha negato la possibilità che l’incontro sia potuto avvenire ma ha sempre ribadito di non ricordare se “tra gli altri giudici che venivano a omaggiarlo per la sua nomina” ci fosse stato anche Paolo Borsellino. Strano o, quantomeno, anomalo.
Dalla deposizione di Martelli emerge, poi, un’altra misteriosa circostanza, legata alla cattura del boss Totò Riina: «Il generale dei carabinieri Francesco Delfino, nell'estate del '92, vedendomi preoccupato, - ha aggiunto l’ex ministro della Giustizia rispondendo ancora alle domande dei pm Ingroia e Di Matteo - mi disse che dovevo stare tranquillo perché mi avrebbero fatto un bel regalo di Natale e aggiunse che Riina me lo avrebbero portato loro». Il generale Delfino, di fatto, diede a Martelli una notizia vera perché il capo dei capi fu catturato dal Ros dopo Natale, il 15 gennaio ’93, grazie alle confidenze, raccolte dallo stesso alto ufficiale, di Balduccio Di Maggio. «Per quanto riguarda la vicenda dell’arresto di Riina - dice a Il Punto Claudio Martelli - ricordo perfettamente di aver ricevuto una telefonata da parte dell’allora sindaco di Milano, Aldo Aniasi, in cui mi chiedeva di incontrare un suo amico generale dei carabinieri che a suo dire doveva riferirmi delle cose importanti. Così, qualche tempo dopo, incontrai Delfino e in quella circostanza mi informò che Riina stava per essere arrestato. Queste cose - aggiunge l’ex ministro della Giustizia - le ho raccontate solo ora perché solo ora sono stato chiamato a deporre in un processo. Nell’estate del ’92, lo ripeto, segnalai a chi di competenza che a mio avviso il Ros stava tenendo un comportamento anomalo, ma in quel momento non potevo sapere che fosse il preludio di una trattativa. Con Mancino - aggiunge Martelli - non parlai della trattativa, non avevo elementi per pensare questo, lo informai solo degli “anomali” contatti che c’erano in corso tra alcuni ufficiali del Ros e l’ex sindaco Ciancimino. Mi sembrava assurdo che i carabinieri agissero di propria iniziativa, senza informare né la magistratura né la Dia, che era stata appena creata per coordinare l’attività investigativa. Non parlai con lui di una possibile trattativa tra Stato e mafia, su questo aspetto ha ragione, ma lo informai certamente di quanto avevo appreso dalla Ferraro, così come informai il capo della Dia e quello della polizia. Il colloquio avvenne tra la fine di giugno e i primi di luglio, quindi subito dopo la sua nomina a ministro dell’Interno e - chiosa l’ex Guardasigilli socialista - certamente prima della strage di via D’Amelio».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 22 aprile 2010 [pdf]

pier-paolo-pasolini«Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno gli indizi». Trentacinque anni dopo la morte di Pier Paolo Pasolini, parafrasando il suo celebre “Romanzo delle stragi”, una nuova inchiesta giudiziaria potrebbe spingere la Procura di Roma a cercare nuove prove e nuovi indizi e a rimettere tutto in discussione. Per la giustizia, quella notte tra l’1 e il 2 novembre ’75 all’Idroscalo di Ostia, l’intellettuale fu ucciso da Giuseppe Pelosi, detto “Pino la Rana”, reo confesso, condannato in via definitiva nel ’79, per omicidio volontario in concorso con ignoti, a 9 anni e 7 mesi. Per molti dietro l’uccisione di Pasolini ci sarebbe, invece, tutta un’altra verità e una lunga serie di interrogativi a cui la scienza, oggi, potrebbe addirittura dare delle inedite risposte.
I mille misteri. Un filo rosso legherebbe il delitto dello scrittore con le misteriose sorti del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, morto nell'incidente aereo di Bascapè il 27 ottobre ’62, e del giornalista Mauro De Mauro, assassinato dalla mafia a Palermo, il 16 settembre ’70, reo di indagare proprio sulla fine di Mattei. Questa è una delle tesi più accreditate che, tra l’altro, è fortemente legata ai contenuti di un capitolo del romanzo “Petrolio”, ancora inedito, mai concluso da Pasolini e mai pubblicato nelle varie edizioni postume, che sarebbe ricomparso, recentemente, nelle mani del senatore Dell’Utri. Prove e indizi sarebbero ancora da ricercare, anche con l’aiuto della scienza che in questi trent’anni ha fatto passi da gigante sulla scena del crimine e che - come nel caso della recente svolta nelle indagini sul delitto di via Poma - potrebbe clamorosamente rimettere tutto in discussione. Tutto da rivedere, daccapo, quindi, con un occhio al microscopio e l’altro anche alle indagine del pm Vincenzo Calia della Procura di Pavia sul sabotaggio dell’aereo di Mattei e l’uccisione di De Mauro.
Il ruolo di “Pino la rana”. Da rivedere, fin dall’inizio, poi, il ruolo di Pelosi che nel 2005 ritrattò tutto ai microfoni di “Ombre sul giallo” affermando, senza mezzi termini, che lui quella sera non partecipò in prima persona all'aggressione di Pasolini, ma che questa fu compiuta da tre persone a lui sconosciute. Pelosi, che all’epoca del delitto aveva 17 anni, si rimangia tutto eppure, quella notte, prima di finire in galera, raccontò agli inquirenti un’altra storia. Ripercorse quei terribili momenti, descrivendo minuziosamente come lui e il famoso regista - che fino ad allora non conosceva neanche per sentito dire - si erano incontrati vicino la stazione Termini. Raccontò come erano arrivati a Ostia, a bordo dell’Alfa 2000 GT di Pasolini, e come, poco dopo, Pino lo aveva massacrato, a bastonate, travolgendo con la sua stessa auto. “Interrogato - dice la Cassazione - Pelosi confessò di aver ucciso Pasolini, sostenendo di aver agito per legittima difesa, dopo essere stato aggredito per essersi rifiutato di sottostare a una prestazione sessuale”. Ma, di fatto, il primo a non vederci chiaro fu il giudice Alfredo Carlo Moro, fratello del presidente della Dc Aldo, che condannando in primo grado Pelosi, nel ’76, sottolineò che dalle indagini era emersa, in modo imponente, la prova che quella notte Pelosi non era solo. “Esistono infatti sia prove positive che dimostrano in modo inequivocabile - scrive il collegio Moro - che quanto meno un'altra persona era presente al fatto, sia elementi indiziari univoci e concordanti, desumibili dalle risultanze probatorie e peritali, che confortano tale tesi”.
Il pressing di Veltroni. «Sull'omicidio di Pier Paolo Pasolini, come per altri fatti della orribile stagione del terrore, si deve continuare a cercare la verità». Scrive l'ex segretario del Pd Walter Veltroni in una lettera aperta, diretta al ministro della Giustizia Angelino Alfano, pubblicata dal Corriere il 22 marzo scorso. L’esponente democratico sollecita la riapertura dell’inchiesta quattro giorni dopo aver presentato un’interpellanza alla Camera in cui chiedeva al ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi, di accertare un altro aspetto, altrettanto oscuro, che riguarda proprio la misteriosa esistenza dell’ultimo capitolo del romanzo “Petrolio”. Il titolo era “Lampi su Eni” e Pasolini pare l’abbia scritto, ma non ultimato, poco prima di essere assassinato, ma la bozza non si è mai trovata, forse fu addirittura trafugata dall’abitazione dello scrittore. Veltroni fa riferimento alle dichiarazioni rilasciate qualche giorno prima dal senatore Marcello Dell'Utri che, tuttavia, dice di aver letto quel capitolo a ridosso dell’inaugurazione (il 2 marzo) della Mostra del libro antico alla Permanente di Milano. Bondi conferma: «Dell'Utri ha avuto tra le mani e letto le 70 pagine del capitolo scomparso». Il ministro assicura anche che ci saranno accertamenti perché, va da sé, quel capitolo potrebbe fare chiarezza su temi rilevanti della storia recente. Ma a infittire il mistero sono le parole di Dell’Utri: «Ho sfogliato quel capitolo, - dice il senatore del Pdl all’Ansa - scritto su carta velina. Mi è stato mostrato; non l'ho potuto leggere. Aveva anche un titolo “Lampi su Eni”. Me lo ha portato una persona che non conosco. Credo che questa persona, visto il clamore, probabilmente eccessivo che il mio annuncio ha suscitato, si sia messo in allarme». Secondo alcuni studiosi quel manoscritto conterrebbe elementi inediti sulla morte di Mattei e De Mauro e perciò anche dello stesso Pasolini. Una tesi, quella che tra i tre fatti ci sia un legame, fortemente sostenuta anche nel libro inchiesta dei giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, “Profondo nero” (Chiarelettere, 2009).
Le nuove indagini. Restando ai dati di fatto, a quanto avvenne quella notte all’Idroscalo, una nuova indagine potrebbe ricostruire la scena del delitto, magari anche tornando ad analizzare il paletto con cui fu ripetutamente percosso Pasolini, i suoi vestiti, il plantare per scarpa destra ritrovato nell’auto del poeta, ma che a lui non apparteneva, così come un vecchio pullover verde. L’indagine si può riaprire, è una scommessa. Anche il penalista Nino Marazzita, avvocato della famiglia Pasolini insieme a Guido Calvi, ne è convinto: «Riaprire l'inchiesta - ha detto all’Ansa - sarebbe un primo passo, ma serve la volontà di accertare la verità. I dubbi e le ombre c'erano già al momento del processo a Pelosi. Era evidente già all'epoca la presenza di complici. Nel tempo le ombre sono aumentate e le richieste di riapertura del caso sono state tante. Alla luce ora delle nuove tecnologie disponibili, dall'esame del dna e a quello dei reperti, mi chiedo - chiosa Marazzita - perché non utilizzarle?». Eppure qualcuno, lo scorso anno, aveva già chiesto alla Procura di riaprire il caso Pasolini, in concomitanza con l’uscita del libro “Profondo nero”, e un fascicolo, di cui non se ne sa più nulla, alla fine fu aperto dalla pm Diana De Martino. Erano stati la criminologa Simona Ruffini e l'avvocato Stefano Maccioni a depositare la richiesta a piazzale Clodio. «Dobbiamo rilevare - dice Maccioni a Il Punto - che la nostra richiesta di riapertura delle indagini è stata condivisa dall'onorevole Veltroni anche sul piano dei contenuti. Ci auguriamo che le nuove notizie riguardanti il ritrovamento del capitolo di Petrolio, a opera del senatore Dell'Utri, possano finalmente portare gli inquirenti a effettuare i necessari riscontri sui reperti conservati al Museo criminologico di Roma».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 8 aprile 2010 [pdf]

Palermo, via Emanuele Notarbartolo. Le sedi “coperte” dei Servizi sono più o meno tutte uguali. Centrali, nascoste tra mille altre attività e tra le mura di edifici anonimi, che di solito sorgono vicino a importanti sedi governative. Uffici facilmente accessibili, spesso protetti da un portiere che sa tutto e che fa finta di nulla. Solitamente si nascondono dietro le insegne di finte agenzie assicurative oppure di inesistenti centri studio, associazioni culturali, istituti di cooperazione o di import-export. Sul campanello c’è scritto semplicemente “agenzia”, “studio”, “istituto” o la sigla di una delle tante Srl che le “barbefinte” utilizzano per coprire l’attività di spionaggio. ...continua a leggere "Le sedi “coperte” dei Servizi siciliani. Misteri palermitani sotto copertura"

Fu Franco Restivo, ex ministro democristiano degli Interni e della Difesa, a far incontrare Don Vito Ciancimino e il misterioso personaggio legato ai Servizi segreti conosciuto col nome di “Signor Franco”. Evocato spesse volte da Massimo Ciancimino nelle aule di tribunale, nei processi dove viene ascoltato dai giudici in qualità di testimone o di imputato di reato connesso, ma non solo. Il figlio di Don Vito, quel “Signor Franco” (spesse volte Signor Carlo), lo fa giocare in un ruolo chiave nelle più intricate vicende palermitane. ...continua a leggere "Stato-mafia, ora si punta al IV livello"