Vai al contenuto

ElettraHa lo stesso nome della nave-laboratorio su cui Guglielmo Marconi, dal 1922 in poi, effettuò i primi esperimenti di radiofonia in Nord America e in Atlantico. Oggi Elettra, ufficialmente classificata come unità destinata al supporto logistico e operativo, è il cuore tecnologico dell'intelligence della nostra Marina militare. In gergo è definita nave Elint-Sigint: si tratta di un'unità specializzata in electronic e signals intelligence, cioè lo spionaggio, e in alcuni casi anche nel disturbo di segnali radio con tecniche di guerra elettronica. Il suo motto, «Anima i silenzi aerei», più di ogni altra spiegazione lascia trapelare le finalità delle missioni spia che compie a supporto di altri mezzi, anche di terra.
Attualmente la nave pare sia molto impegnata nel Mediterraneo, di fronte alle coste africane, in attività di ricognizione, sorveglianza e analisi delle comunicazioni radio. Tuttavia, nonostante alcune interrogazioni parlamentari, l'unica missione della nave Elettra di cui si è avuta notizia, oltre il suo probabile impegno durante la crisi libica del 2011, risale al giugno del 2014, quando fu spedita dal governo Renzi nel Mar Nero a spiare le forze militari russe e soprattutto le milizie secessioniste filo russe attive nel bacino del Donec e nel Sud-Est dell'Ucraina. La notizia fu resa nota da analisidifesa.it e dall'agenzia di stampa russa Ria Novosti, sottolineando che la sua presenza davanti alle coste ucraine aveva irritato, e non poco, il Cremlino. ...continua a leggere "Elettra, la nave spia italiana avvolta nel mistero"

Si complica, e non di poco, la vicenda dei due Marò del battaglione San Marco fermati in India con l’accusa di aver ucciso, il 15 febbraio al largo delle coste del Kerala, due pescatori indiani scambiati per pirati del mare. Il magistrato di Kollam il 16 aprile ha esteso di altri 14 giorni la carcerazione preventiva dei Marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, detenuti nella prigione di Trivandrum. Il prolungamento dei termini di custodia giudiziaria, secondo quanto si è appreso, sarebbe stato richiesto dalla polizia indiana che avrebbe ancora bisogno di tempo per completare le indagini, prima di decidere per un eventuale rinvio a giudizio.
Sul conto dei due fucilieri del San Marco, che rischiano la pena capitale, pesano, più che altro, le conclusioni della perizia balistica, condotta in un laboratorio della polizia scientifica indiana, secondo la quale a uccidere i due pescatori sarebbero stati i fucili d’assalto Beretta in dotazione all’unità militare italiana imbarcata sulla petroliera Enrica Lexie. Perizia, quest’ultima, fortemente contestata in Italia, anticipata dalla stampa indiana, ma non ancora trasmessa alla Farnesina, e, ora, oggetto di una rilettura compiuta, per conto del “Comitato Cittadino Marò Liberi”, da un esperto, ex consulente del caso Ustica, secondo il quale a sparare non sarebbero stati Latorre e Girone.
Sulla vicenda, ha confermato il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, a margine del vertice Nato tenutosi a Bruxelles la scorsa settimana, «i contatti con i principali partner sono continui, in particolare con il ministro degli esteri danese, che è presidente di turno della Ue. L’azione diplomatica prosegue a tutto campo - ha aggiunto il titolare della Farnesina - e con la massima intensità». Terzi ha confermato, poi, che l’interessamento dell’Unione europea, in particolare dell’alto rappresentante della politica estera Catherine Ashton, è forte. Nelle stesse ore il guardasigilli, Paola Severino, ha fatto sapere che il governo ha inoltrato all’India la rogatoria internazionale con cui chiede di acquisire i risultati degli accertamenti svolti dalle autorità del Kerala. Si tratta degli esami balistici (anticipati dalla stampa indiana ma non ancora trasmessi all’Italia) e dei verbali contenenti le dichiarazioni dei due Marò. In tal senso il ministro della Giustizia, intervenendo alla Camera il 18 aprile, ha confermato «il pieno impegno del governo» per riportare in Italia i due fucilieri, e ribadito, riprendendo quanto dichiarato dal collega Terzi, che la giurisdizione sulla vicenda «resta del nostro Paese». Il 15 marzo, ha spiegato il ministro, la Procura di Roma - che ha iscritto i due Marò nel registro degli indagati per omicidio volontario - «ha trasmesso al ministero della Giustizia il testo della rogatoria che, nella stessa giornata, è stata inviata alla Farnesina affinché‚ la trasmettesse alle autorità indiane».
Tuttavia c’è un ostacolo non facile da superare. Tra l’Italia e l’India non vi è un trattato di mutua assistenza giudiziaria, e, perciò, le richieste di rogatoria inoltrate dalla magistratura italiana sono trattate sulla base della cosiddetta «cortesia internazionale» e con offerta di «reciprocità per casi analoghi». Insomma la risposta degli indiani non è per nulla scontata e potrebbe essere oggetto di un baratto, semmai l’Italia abbia qualcosa da mettere sul piatto. Dunque il governo sta mettendo in campo tutte le sue forze, con un impegno sia politico diplomatico sia tecnico giuridico, in attesa di una risposta da Nuova Delhi, non dovuta ma di cortesia. Sulla sorte dei due Marò, inoltre, incombe anche il sospetto - già avanzato da Il Punto - che a complicare la faccenda ci si sia messa di mezzo anche la tragica vicenda di Franco Lamolinara, l’ingegnere sequestrato in Nigeria e ucciso, insieme al collega Chris McManus, nel corso di un blitz delle teste di cuoio inglesi l’8 marzo scorso. Un incidente diplomatico, con implicazioni d’intelligence, che ha raffreddato i rapporti tra Roma (orientata a trattare) e Londra (intervenuta con la forza). Non è un mistero, infatti, che Palazzo Chigi fosse già pronto a chiedere, e con tanto di cappello in mano, un intervento di Downing Street sulla vicenda dei Marò detenuti in India. La sorte dei Marò potrebbe essere legata a quanto la Corte Suprema di New Delhi deciderà il prossimo 8 maggio dopo aver ammesso (il 23 aprile) il ricorso presentato dall'Italia in merito all'incostituzionalità della detenzione dei due militari del San Marco. I tre giudici del massimo organo giudiziario indiano, accogliendo le argomentazioni presentate dal legale, Harish Salve, a proposito dell'illegittimità dell'arresto di Latorre e Girone, hanno chiesto al governo dell'Unione indiana e allo stato del Kerala di presentare una memoria. L'avvocato ha ribadito che l'incidente è avvenuto in acque internazionali, perciò il fatto è di competenza italiana, e che Kerala è incompetente a giudicare una disputa tra due Stati sovrani e in cui sono implicati dei militari. Il ricorso «per eccezione di giurisdizione», in cui si contesta l'applicabilità delle leggi indiane al caso della Enrica Lexie, era stato presentato anche all'Alta Corte del Kerala, che, però, deve ancora pronunciarsi. Nell'attesa del verdetto il team di legali italiani ha presentato un appello in via di urgenza alla Corte Suprema dove è in corso anche l'esame della petizione per il rilascio della nave Enrica Lexie.
«Quella perizia balistica indiana è falsificata in modo “evidente” e “oggettivo” nei punti dove si dichiara la colpevolezza dei militari italiani. Non sono stati i Marò del San Marco a sparare ai pescatori e tutta la verità è nei tracciati radar». Luigi Di Stefano non ha dubbi. Da freelance - l’ex consulente radaristico della compagnia aerea Itavia nell’inchiesta-rompicapo sulla strage di Ustica (27 giugno 1980, 81 vittime) - si è preso la briga, per conto del “Comitato Cittadino Marò Liberi” di studiare la dinamica dell’accaduto e di riscrivere le conclusioni dell’affaire Marò. «La sicurezza di avere “prove inoppugnabili” sulla responsabilità dei due militari italiani - spiega l’esperto rendendo pubblico il suo studio sul sito seeninside.net/piracy - è totalmente campata in aria. Le autorità indiane sapevano fin dal 16 febbraio (giorno successivo ai fatti e giorno dell’autopsia sui cadaveri) che il calibro della pallottola repertata non era quello delle armi italiane (Beretta 70/90 calibro 5,56 Nato, ndr), per cui non si capisce quale sia il supporto a queste roboanti dichiarazioni, ma, soprattutto, ai provvedimenti di arresto eseguiti successivamente a carico dei due militari italiani e al fermo della nave Enrica Lexie. L’unico elemento che ritorna e regge alle opportune verifiche - va avanti il tecnico - è la rotta della nave Enrica Lexie, congrua per spazi, tempi e velocità con quanto dichiarato dalla parte italiana. Così come le dichiarazioni dei due Marò che affermano di non aver colpito nessuna imbarcazione, tantomeno il peschereccio St. Antony. Tutto il resto si sbriciola non appena si compiono verifiche seguendo le più elementari metodologie di un’indagine tecnico-giudiziaria». A questo punto Di Stefano elenca le incongruenze, compiendo una rilettura del caso che scagiona i due fucilieri del San Marco, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, tuttora detenuti in India. «Il calibro del proiettile è incompatibile con le armi in dotazione ai nostri militari. La Enrica Lexie, nel momento in cui il peschereccio St. Antony viene colpito, - spiega l’ex consulente del caso Ustica - si trovava 27 miglia più a nord. Il ruolo della Olympic Flair non è stato investigato, è stato permesso a questa nave di eclissarsi, e abbiamo visto che anche quest’ultima ha dichiarato di aver subito un attacco pirata addirittura nella rada del porto di Kochi. Gli autori dell’omicidio dei due pescatori vanno ricercati altrove, piuttosto che nel personale imbarcato sulla Enrica Lexie, e nuove conferme potranno arrivare - chiosa Di Stefano - solo esaminando i tracciati radar».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto [pdf]

La-Rettondini-sul-Costa-Concordia-per-il-reality-Professional-Lookmaker-638x425Per la Capitaneria non sarebbe stato possibile, con gli strumenti a disposizione, prevedere il naufragio della Costa Concordia». Ne è convinto il comandante generale del Corpo delle capitanerie, l’ammiraglio Marco Brusco. Per il vertice della Guardia Costiera nulla e nessuno, tranne chi era al timone della Concordia, avrebbe potuto evitare quanto è accaduto la sera del 13 gennaio all’Isola del Giglio. Neanche se la Capitaneria di porto di Livorno avesse interrogato l’Ais, il sistema di geolocalizzazione delle navi, prima delle 22.12, cioè ben mezz’ora dopo la collisione tra la nave Costa e lo scoglio de Le Scole. «L’Ais non è un sistema preventivo - ha spiegato Brusco alla Commissione Lavori pubblici del Senato - ma fa parte di una rete di monitoraggio ben più complessa che è collegata al Vts, ma la zona in cui si è verificato l’incidente, non è area Vts. L’Ais - ha aggiunto l’ammiraglio - è come una videocamera davanti a una banca o in autostrada: si va a verificare dopo quello che è successo, se serve».
I PUNTI DA CHIARIRE. Quindi Livorno, pur avendo la facoltà di seguire in diretta la rotta della Concordia, perché a questo serve l’Ais (lo può fare chiunque anche consultando il sito marinetraffic.com), non era a conoscenza degli “inchini”, né, tantomeno, che quella sera la nave della Costa crociere, ai comandi di Francesco Schettino, era finita sugli scogli del Giglio. Se ne accorgono alle 22.06 quando alla sala operativa della Capitaneria arriva una telefonata dei carabinieri di Prato, contattati dai familiari della signora Concetta Robi che dalla Concordia aveva chiamato sua figlia dicendogli che a bordo c’era qualcosa che non andava. Solo sei minuti dopo Livorno interroga l’Ais e individua la nave. «Non sapevamo assolutamente nulla degli “inchini” - ribadisce Brusco -, ma neanche in altre occasione la Capitaneria è stata avvertita, perché è una manovra che rientra nell’ambito della responsabilità del comandante, che nella sua navigazione, purché rispetti le regole e non condizioni la sicurezza di coloro che stanno a bordo, può fare la sua manovra». Certo, Schettino ha le sue responsabilità, quelle che del resto ha già ammesso rispondendo alle domande dei magistrati della procura di Grosseto, ma, “inchini” a parte, perché la Capitaneria di porto di Livorno abbia perso così tanto tempo, prima di individuare una nave lunga 300 metri che stava affondando con a bordo 4.200 passeggeri, resta un mistero. Che l’Ais serva anche a questo è la stessa azienda che l’ha progettato e venduto alle Capitanerie di Porto, la Elman di Pomezia, ad affermarlo dopo la tragedia: «Se fosse stato utilizzato come si doveva, facendo scattare l’allarme con l’avvicinamento all’isola - hanno dichiarato i suoi tecnici a Repubblica e la Stampa - forse l’incidente della Concordia non sarebbe accaduto». Dalla Capitaneria di Livorno affermano che gli operatori in servizio nella sala operativa eseguono controlli al terminale Ais ogni mezz’ora, e così facendo, per esempio, la notte del 18 gennaio scorso hanno notato un cargo battente bandiera della Tanzania fermo, con i motori in avaria, tra l’isola del Giglio e quella di Montecristo. Quel cargo è stato poi soccorso e trainato fino al porto di Piombino. Perciò, almeno in questo caso, interrogando prontamente l’Ais si è scoperto che una nave era nei guai e si è intervenuti nel giro di pochi minuti. La notte del 13 gennaio, se la regola vale sempre, la sala operativa di Livorno annotò sul brogliaccio che alle 22 in punto il «traffico marittimo era regolare». Così non era, perché da almeno un quarto d’ora la Concordia aveva impattato sugli scogli e cambiato rotta di 180 gradi. ...continua a leggere "I buchi neri della Concordia"

«Se qualcuno avesse interrogato il sistema Ais, forse non ci sarebbe stato bisogno di quella telefonata ai carabinieri di Prato, perché a Livorno si accorgessero che la Costa Concordia era già troppo vicina all’Isola del Giglio e addirittura con la prua rivolta verso sud, e non nella direzione del porto di arrivo. Quel sistema serve a dedurre in tempo reale, come avviene per gli aerei, l’esatta posizione delle navi attraverso un transponder installato a bordo». A parlare è un esperto di sicurezza marittima che conosce bene le caratteristiche dell’Ais, acronimo di Automatic Identification System. Si tratta di un sistema internazionale obbligatoriamente installato sulle navi di stazza superiore alle trecento tonnellate, come la Concordia affondata il 13 gennaio di fronte all’Isola del Giglio, e in grado di trasmettere le informazioni necessarie a identificare e localizzare il mezzo navale: il nome dell'unità, il codice Mmsi (Maritime Mobile Service Identification), latitudine e longitudine, velocità e rotta. Per ottenerle, nell’arco di pochi istanti, basta puntare il mouse sul triangolo che rappresenta la nave geolocalizzata su una mappa.
La prova che nessuno - prima di quella telefonata dei carabinieri di Prato, avvisati da un familiare di un passeggero che a bordo della nave c’era qualcosa che non andava - abbia scrutato lo schermo dell’Ais è nella prima pagina del brogliaccio della sala operativa della Capitaneria di porto di Livorno. Alle 22 in punto, quando la Costa Concordia era già nei guai da circa mezzora, l’operatore Ais scrive: «Traffico marittimo regolare». Sei minuti dopo arriva la chiamata dei carabinieri, e ne dovranno passare altri 6 prima che l’operatore della Capitaneria annoti sul registro: «Da verifica Ais individuiamo la M/N Costa Concordia in prossimità dell’Isola del Giglio in psn 42°22’.11N - 010°55.32E in località Punta Lazzaretto». Perciò solo alle 22.12 Livorno si accorge che la Concordia è fuori rotta, di diverse miglia, inclinata su un fianco e con la prua rivolta verso Civitavecchia e non Savona. L’Ais viene interrogato solo in quel momento, e addirittura dopo aver chiamato il porto di Savona, la telefonata nel brogliaccio è annotata alle 22.10, e aver appreso «che nella giornata odierna non sono partite navi della Costa Crociare». Perché? Ais serve a evitare tragedie come queste, e nei suoi ricordi - pubblici accedendo al sito marinetraffic.com - è possibile rintracciare la prova che la Concordia aveva già effettuato ben 52 “inchini”, troppo vicini alla costa come nel caso dell’Isola del Giglio. Nessuno li ha denunciati, perché nessuno, prima della sera maledetta del 13 gennaio, era andato a cercare la prova di queste violazioni sui tracciati satellitari. ...continua a leggere "Doppio giallo per un MayDay"