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cantone«Napoli è sotto attacco». Il 4 marzo è una data che il sindaco Luigi de Magistris ricorderà per sempre. E le sue parole, affidate a Twitter, la dicono lunga su quanto stava patendo la sua città in quelle ore. In via Riviera di Chiaia si era appena sbriciolato un palazzo e nella notte, nel quartiere di Bagnoli, le fiamme, in un amen, avevano completamente distrutto la Città della Scienza. Un incendio doloso. Anzi, un rogo di camorra, come hanno titolato i quotidiani nei giorni successivi. Un attentato opera di professionisti, con almeno sei punti d’innesco attorno al perimetro della grande struttura fondata dallo scienziato Vittorio Silvestrini e gestita dalla Fondazione Idis. Chi ha appiccato il fuoco ha cosparso benzina e altri liquidi infiammabili che hanno alimentato le fiamme per tredici ore. Poi la brezza che arriva dal mare, che è lì a due passi, ha fatto il resto, rendendo quello che era il simbolo culturale e della rinascita di Napoli un cumulo di macerie annerite. S’indaga in tutte le direzioni: dagli appalti al racket degli investimenti, dal malessere interno per le difficoltà economiche, fino alla mancata bonifica dell’area ex Italsider. Ovviamente in terra di camorra è difficile non attribuire un’azione così eclatante alla criminalità organizzata, ma Raffaele Cantone, il magistrato che ispirò lo scrittore Roberto Saviano e lottò contro la camorra indagando sul clan dei Casalesi e facendo condannare all’ergastolo camorristi del calibro di Francesco Schiavone e Francesco Bidognetti, esclude che si tratti di un’azione camorristica.
Dottor Cantone, perché non è stata la camorra a incendiare la Città della Scienza?
«Faccio fatica a pensare che l’unica cosa che in quella realtà era in grado di portare ricchezza, e che quindi indirettamente poteva perfino fare gola alla camorra, sia stata distrutta senza una ragione. A Bagnoli l’unica situazione capace di muovere l’economia e di creare un’alternativa sul territorio era la Città della Scienza e quindi mi sembra incredibile che la criminalità organizzata, che ha interesse a guadagnare e a lucrare, possa aver eliminato l’unica cosa che in quel territorio portava denaro. Ovviamente questo discorso vale a condizione che non ci siano altre situazioni, fatti che però ad oggi non emergono». ...continua a leggere "Tutta colpa della Camorra?"

severinoPer il momento è solo una direttiva. Ma l’orientamento del ministero della Giustizia sullo spinoso tema dei costi per le intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche, appare ormai chiaro. Le parole d’ordine sono due: risparmiare e centralizzare. E questa volta la novità principale, prima ancora di regolamentare questo delicato settore, non riguarda la privacy dei cittadini, ma solo i mezzi necessari per violarla, legalmente. Via Arenula pensa a una gara unica nazionale che affidi a un solo gestore l’hardware delle sale di ascolto di tutte le 166 procure. Non è chiaro, tuttavia, cosa dovrà garantire all’autorità giudiziaria chi si aggiudicherà la maxi gara d’appalto, né le sorti delle aziende che al momento si spartiscono un’ampia fetta di mercato che vale più o meno 300 milioni di euro l’anno. Un settore già finito nel mirino della Commissione europea, che lo scorso anno ha richiamato l’Italia per il mancato rispetto delle normative sugli appalti, sollecitando il governo a fare in modo che l’affidamento di questi servizi avvenga solo su basi concorrenziali e attraverso gare pubbliche. ...continua a leggere "Ascolti segreti"

Il tema spinoso delle intercettazioni sembrava finito nel dimenticatoio. Sorpassato dallo spread impazzito, dall’articolo 18 e dalla caduta anticipata di Silvio Berlusconi, il premier (pardon, l’ex) che – più di altri – provò a caricare sulle spalle degli italiani una paura in più: quella di essere spiati al telefono. Per intenderci stiamo parlando di una materia talmente complicata, quasi quanto regolare il conflitto d’interessi, che ha visto due governi, prima Prodi e poi Berlusconi, alle prese con un ddl mai nato, ma da tutti invocato a gran voce, guarda caso ogni volta che un politico – di destra o di sinistra – finiva intercettato da una procura. La bozza la portò all’attenzione del parlamento una vittima illustre dei telefoni sotto controllo, l’ex guardasigilli Clemente Mastella, il cui traffico telefonico (cosa ben diversa da quello fonico) finì – illegalmente secondo la Procura di Roma – negli atti dell’inchiesta Why Not? condotta dall’allora pm Luigi de Magistris e dal suo consulente, Gioacchino Genchi. Entrambi sono sotto processo, a Roma (la prima udienza ci sarà il prossimo 17 aprile), perché, secondo l’accusa, chiesero alle compagnie telefoniche di “sbirciare” nel traffico di migliaia di utenze, tra le quali anche quelle di parlamentari e agenti segreti, senza chiedere la preventiva autorizzazione alle Camere. ...continua a leggere "Bavaglio & Business"

dia_agente_antimafiaGli analisti della Direzione investigativa antimafia le chiamano allogene. Sono le organizzazioni criminali straniere che operano sul nostro territorio, a volte a stretto contatto con quelle autoctone (mafia, camorra e ‘ndrangheta) altre in assoluta autonomia. Sono ramificate, fluide e in continua evoluzione e in alcuni casi hanno una struttura mafiogena, cioè di tipo verticistico, che assomiglia tanto alle mafie made in italy. Sono particolarmente specializzate in traffici illeciti, dalla droga al tabacco, passando per le armi, l’importazione di merci contraffatte, la tratta degli esseri umani e il riciclaggio di danaro sporco. Un fenomeno, quello delle infiltrazioni delle mafie straniere, che secondo la Dia non va perso di vista, anche se al momento non appare invasivo come quello nostrano. In cima alla classifica, dicono gli analisti dell’Antimafia, ci sono certamente gli albanesi, seguiti da cinesi, romeni, nigeriani, sudamericani, magrebini, russi, bulgari e progressivamente anche i serbi.
La mafia albanese e kosovara è strutturata in modo assai simile alle organizzazioni criminali autoctone e con esse ha storicamente contatti ben consolidati. La mafia albanese, come quella cinese e nigeriana, può essere definita stanziale, cioè che delinque stabilmente nel nostro Paese. Gli albanesi sono leader nel mercato degli stupefacenti: un’attività che hanno ereditato dai cugini kosovari, in particolare nel traffico di eroina dove si sono imposti sul mercato come intermediari tra la mafia turca e l’occidente, ma anche per la cocaina. In principio erano i migliori sul mercato per la marijuana, essendone stati per anni grandi coltivatori, poi si sono evoluti e si sono inseriti nel segmento del trasporto delle altre droghe. La mafia italiana ha sfruttato gli albanesi, come trasportatori, loro si sono fatti valere e hanno acquisito nel tempo contatti diretti con i produttori. Oltre i grandi gruppi, quelli che trafficano essenzialmente in droga, ci sono una miriade di satelliti, più piccoli, familiari, dediti allo sfruttamento della prostituzione e alla commissione di reati contro il patrimonio.
Poi ci sono i cinesi. Loro danno meno problemi dal punto di vista dell’ordine pubblico, perché commettono reati che, almeno per ora, non creano allarme sociale ma il loro silenzio non va sottovalutato. Tuttavia il problema più grosso - dicono dalla Dia analizzando ciò che succede ogni giorno - è costituito dalla principale attività che li tiene impegnati nelle Chinatown italiane (Firenze, Milano, Roma e Napoli): l’importazione di merce contraffatta. Gli analisti parlano di un vero e proprio “inquinamento del mercato regolare”. Un mercato tossico, che ha ormai affondato le sue radici nell'economia italiana diventando molto appetibile anche per la criminalità autoctona. La criminalità cinese, per la Direzione investigativa antimafia, ha ormai contatti e collaborazioni, comprovate e consolidate, con la camorra con cui condivide, grazie alla sua indubbia abilità, il business della contraffazione dei marchi. L’attività di sfruttamento dei connazionali, secondo le agenzie di intelligence, sembra essere finalizzata anche alla costituzione di strutture parabancarie: vere e proprie “banche clandestine” utilizzate dalla criminalità cinese per il trasferimento di fondi. Alla Dia, tuttavia, non amano parlare della secolare e temibile mafia gialla, le Triadi, la Tian Di Hui (società del cielo e della terra). Però collegamenti, anch’essi comprovati da indagini giudiziarie, parlano comunque di un’affermazione molto forte della criminalità cinese in Europa. Un’affermazione che ha i connotati di un’organizzazione transnazionale che si muove e delinque allo stesso modo dovunque si insedi.
Cho-hai, tradotto dal cinese vuol dire pescecane o anche succhiasangue. Sono loro i boss delle famigerate Triadi, la mafia cinese. Sono di poche parole, tanto che gli investigatori hanno scoperto che usano minacciare i conterranei recapitandogli mazzi secchi di gladioli rossi. Quando le buone maniere non bastano, poi, passano ai colpi di machete, raramente al piombo. C’è un responsabile per ogni territorio, ma non si sa con quale legame verso l’alto. Un’organizzazione verticistica, poco rumorosa, stanziale e ben radicata in Italia, che alimenta con i propri introiti un notevole flusso finanziario. Sono specializzati in estorsioni, sfruttamento della prostituzione, traffico di armi e di droga e, in particolare, nella contraffazione dei marchi. Nel novembre scorso, a Torino, la Mobile ha disarticolato una potente cosca "gialla", ramificata in tutta Italia, che faceva capo al 36enne RuiChun Zheng, il grande fratello, così come lo avevano ribattezzato in segno di rispetto i suoi connazionali. L’indagine era partita dall’uccisione del 22enne Hu Lubin, uno spacciatore di chetamina, ucciso a febbraio a Milano, a colpi ti machete, per uno sgarro. Dalle intercettazioni - un rompicapo per via del dialetto dello Zhejiang - si è arrivati al grande fratello, che aveva appena preso il posto di Hu Lubin. Più in generale, di loro, si dice che sono quasi immortali e sempre in buona salute. Zu-pin, vuol dire funerale. Dove? Quando? Non si sa. La loro vita è un mistero fin dalla nascita. Quando muoiono, poi, non esiste un registro né risultano cinesi sepolti in Italia. Vengono a lavorare da giovanissimi, tra i 15 e i 20 anni, e quando arrivano da clandestini sono wu-min, senza nome. È un ciclo continuo: i documenti dei morti finiscono ai vivi, riciclati per generazioni. Un passaporto di un cinese morto vale 15mila euro e lavorano giorno e notte per pagarsi il viaggio e per ottenerlo. Saldato il debito, diventano imprenditori, sfruttano se stessi, creano società schermo, le cosiddette scatole cinesi, e un’infinità di strutture parabancarie per esportare grandi capitali. Da dove arrivano tanti danari, è un altro mistero. Dietro quelle mazzette di eulo ci sarebbe la Repubblica Popolare Cinese, lo Stato, fortemente interessato a fare “cubatura” nel vecchio continente, ma anche la temibile mafia gialla. Le loro comunità sono omertose: un silenzio facilitato da una sessantina di impenetrabili dialetti.
Le stesse caratteristiche della criminalità cinese, provate da altrettante indagini, sono state individuate dalla Dia e dai Servizi analizzando un’altra organizzazione criminale, quella nigeriana. Una holding transnazionale del crimine presente in Italia e specializzata, così come quella albanese e magrebina, nel traffico degli stupefacenti. Anche le organizzazioni criminali africane hanno dimostrato grandi capacità nel crimine economico, in particolare quelle algerine, sia sul piano dell’attività di produzione e commercializzazione di generi contraffatti, con possibili saldature con le organizzazioni asiatiche, sia per quanto riguarda il riciclaggio del danaro, nel caso dei nigeriani, attraverso l’acquisizione di strutture commerciali e di money transfer. Anche i sudamericani contrabbandano droga sul suolo italiano, in ottimi affari con la mafia siciliana, in particolare per il mercato della cocaina, e ora anche con la ‘ndrangheta calabrese. Sulla mafia russa mancano attuali evidenze giudiziarie. Per gli analisti dell’Antimafia, in questo caso, il discorso va comunque allargato alle organizzazioni criminali dei paesi dell’ex blocco sovietico, come la criminalità romena e quella bulgara, dedite alla tratta degli esseri umani e allo sfruttamento della prostituzione, e in particolare quella ucraina, specializzata nel contrabbando di grandi quantitativi di sigarette.
La criminalità russa, è una mafia di transito, o meglio ancora d’affari, perché particolarmente dedita, su scala mondiale, al riciclaggio e al traffico di armi. Le poche evidenze giudiziarie parlano, infatti, di enormi flussi di danaro da riciclare all’estero, attraverso massicce acquisizioni immobiliari anche in Italia. Inquietante e drammatico, il tema della tratta degli esseri umani a cui, alcuni mesi fa, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica dedicò uno studio sottolineando implicazioni e rischi per la sicurezza nazionale. L'organizzazione mondiale del lavoro stima che nel mondo ci siano oltre 12 milioni di persone sottoposte a sfruttamento sessuale e lavorativo. Questo fenomeno è diventato il secondo business illecito globale, dopo il narcotraffico, che vede in prima linea sia organizzazioni mafiose - presenti stabilmente anche sul territorio italiano (albanesi, cinesi, romeni e bulgari) - che holding terroristiche. 

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 11 febbraio 2010 [pdf]