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sonia alfano«In Europa non c’è un solo Paese immune al crimine organizzato. Combatteremo le mafie ovunque, e anche i “colletti bianchi” avranno le ore contate». Sonia Alfano, da Strasburgo, dichiara guerra a cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta. L’europarlamentare dell’Idv, 41 anni, figlia del giornalista Beppe Alfano, ucciso dalla mafia nel ’93, è stata appena eletta alla presidenza della Commissione antimafia europea. Un organismo che in diciotto mesi dovrà convincere tutti i Paesi membri che la criminalità organizzata non è solo una piaga italiana. Lo farà - come spiega a Il Punto - esportando la nostra legislazione antimafia, e, forse, creando anche una super procura.
Onorevole Alfano annunciando la sua nomina ha parlato del raggiungimento di un primo traguardo. E’ stato così difficile far capire all’Europa che la criminalità organizzata riguarda tutti e non solo l’Italia?
«Mi sento di dire che è stata una difficoltà giustificata. Nel senso che per tantissimi anni, in nessun atto ufficiale europeo, è mai comparso il termine mafia, né tantomeno crimine organizzato. Se a questo aggiungiamo il fatto che in tutti gli altri Paesi europei c’è la convinzione che le mafie siano un problema prettamente italiano, come anche in Italia in molti sono convinti che questo problema riguardi solo il Sud, ci rendiamo conto che far ben comprendere il problema è stato difficoltoso. In Europa s’ignorava la reale minaccia, pur essendo ben noto il radicamento della ‘ndrangheta in Germania, di cosa nostra in Olanda, in Belgio e in Francia e della camorra in Spagna. I miei colleghi hanno compreso tutto questo parlando con i loro magistrati».
Che poteri avrà la Commissione?
«Intanto farà delle audizioni con esponenti delle autorità giudiziarie e del sistema investigativo europeo per tracciare un quadro e avviare un monitoraggio rispetto alla capacità di radicamento delle varie mafie in tutti e 27 i Paesi. Già lo scorso anno, attraverso il contributo di una serie di magistrati italiani, spagnoli e canadesi, abbiamo iniziato a comprendere come sia stato possibile che le organizzazioni criminali si radicassero nei vari Paesi europei. E abbiamo la certezza che non c’è un solo Paese immune».
La Commissione che presiede come collaborerà con l’autorità giudiziaria?
«Ascolteremo i vari organi che si occupano di contrasto al crimine organizzato e saranno loro a dirci, dal punto di vista legislativo, quali sono le necessità. Tra le priorità c’è sicuramente l’introduzione del reato di associazione mafiosa, ma anche del carcere duro, oltre a un testo unico antimafia da consegnare alla Commissione europea e agli altri stati membri».
Vi avvarrete di Eurojust ed Europol o pensate di istituire una super procura?
«L’obiettivo di diversi esponenti è quello di creare la figura del procuratore europeo antimafia. Sono fermamente convinta che l’indipendenza della magistratura dal potere politico debba essere la condicio sine qua non. Quindi la direzione è quella anche per noi, ma prima vogliamo capire da chi dipenderà questa procura. Di fatto abbiamo già attivato una serie di collaborazioni molto proficue, non solo con Europol ed Eurojust, ma anche con l’Interpol, con l’Olaf, con la Corte dei Conti europea, con l’Unodc e con tutti gli organismi europei che già si occupano di mafie. Quello che possiamo fare come Commissione, e non è poco, è agevolare la cooperazione tra questi organismi».
La nostra legislazione antimafia è davvero la migliore al mondo?
«L’Italia, oltre ad avere la migliore legislazione, è il Paese che ha pagato di più in termini di vite umane. Ma è ovvio che anche nel dispositivo legislativo italiano ci sono delle lacune. Penso alla norma che tutela i testimoni di giustizia, che è la stessa che tutela i collaboratori. I testimoni, con tutto rispetto per i pentiti, sono cosa ben diversa. Stiamo limando alcune sbavature, si pensi anche al fatto che l’Italia è l’unico Paese al mondo che fa una distinzione tra vittime di mafia e vittime del terrorismo».
Ha annunciato che dichiarerà guerra anche ai “colletti bianchi”…
«Guerra senza frontiere e sconti per nessuno. Quello che è accaduto in Italia non deve accadere mai più. Perché se è stato possibile legalizzare e istituzionalizzare cosa nostra e la camorra, è avvenuto perché c’è stato chi dall’esterno ha materialmente reso possibile l’ingresso del crimine organizzato nelle istituzioni e nella politica. Non sarà più possibile. I fiancheggiatori, i prestanome, e coloro che si sono prestati a far sì che le mafie diventassero linfa vitale per una parte deviata delle istituzioni sappiano che hanno i giorni contati».
Per fare tutto questo non sono pochi diciotto mesi?
«In meno di un anno abbiamo dimostrato che quando c’è la volontà si procede in maniera assolutamente lineare e spedita e con degli obiettivi condivisi da tutti a prescindere dagli schieramenti politici. Tutto questo era inimmaginabile fino a un anno fa. Ma abbiamo dimostrato che porre come obiettivo la risoluzione di un problema che riguarda la sicurezza e la libertà di 500 milioni di cittadini non è un’impresa impossibile».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 17 maggio 2012 [pdf]

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Quattordici anni lontani, distanti uno dall’altro. Le morti di Aldo Moro e di Paolo Borsellino sembrano essere legate dal tradimento. Di quella parte di Stato che entrambi, con ruoli diversi difendevano. E per il quale hanno, alla fine, dato la vita. Le lettere scritte da Moro durante i 55 giorni della prigionia sono un potente e implacabile atto d’accusa per la politica italiana. Le ultime rivelazioni che giungono da Caltanissetta sugli ultimi giorni di Borsellino rappresentano un colpo micidiale per la credibilità della lotta alla mafia.
C’è un luogo ben preciso e ricco di significati dove lo Stato e l’anti Stato si incontrano. È il Cafè de Paris, da simbolo della Dolce Vita romana negli Anni Sessanta a emblema dell’infiltrazione criminale nella Capitale nei nostri giorni. A pochi giorni di distanza dal 16 marzo 1978, giorno del sequestro di Aldo Moro, Francesco Fonti – oggi meglio conosciuto come il pentito che ha raccontato le vicende delle navi dei veleni - viene convocato dalla sua cosca, Romeo, a San Luca e gli viene detto di andare a Roma. Dalla Dc calabrese erano venute pressanti richieste alle cosche per attivarsi al fine della liberazione di Moro. Pressioni – ricorda Fonti - erano venute anche dalla segreteria nazionale e dal segretario Benigno Zaccagnini, morto a Ravenna il 5 novembre 1989. Fu proprio nel locale di via Veneto, che Fonti incontrò l’esponente democristiano: «E’ un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico – disse il politico - e non avrei mai potuto pensare che oggi potessi essere seduto davanti a lei in qualità di petulante, ma è così». Fonti ricorda come Zaccagnini non facesse nulla per nascondere il proprio “schifo”: «Non sono mai sceso a compromessi - riprese - ma se sono venuto ad incontrarla significa che il sistema sta cambiando, faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva, ci dia una mano e la Dc di cui mi faccio garante saprà sdebitarsi». Prima di andarsene, disse: «Non ci siamo mai incontrati se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona lo dica all’agente Pino». Quello che Zaccagnini non sapeva era che Fonti, uomo organico all’organizzazione criminale, da nove anni frequentava con profitto le stanze di Forte Braschi. E che già conosceva l’agente Pino. Moro non venne salvato. Certo non per colpa di Fonti che, anzi, tornato in Calabria, riferì delle ricerche avviate. Ma venne bruscamente stoppato: «La vicenda non interessa più», gli fu detto. ...continua a leggere "Da via Fani a via D’Amelio, il filo rosso che unisce le morti di Moro e Borsellino"

E’ Roma, non la Chicago degli anni Venti. Trentatré omicidi in undici mesi, con il pesante sospetto che dietro tanto piombo e morte ci sia una guerra tra delinquenti, piccoli e grandi, che sgomitano per controllare il territorio e scalare le gerarchie criminali. Una lunga scia di sangue che, secondo alcuni, sta disegnando uno scenario identico a quello che caratterizzò gli anni Settanta, mentre, secondo altri, tanta violenza sarebbe il segnale più evidente che la criminalità organizzata, tutta, si sia definitivamente insediata nella Capitale. A lanciare l’allarme, che nel ventre di Roma c’è qualcosa che sta cambiando, con cui prima o poi bisognerà fare i conti, è il giudice Otello Lupacchini, colui che disarticolò la più potente organizzazione criminale autoctona che abbia mai operato nella Capitale: la Banda della Magliana. «Non v’è dubbio che trentatré morti, siano effettivamente molti - commenta il giudice rispondendo alle domande de Il Punto - ma il dato interessante, in questi ultimi giorni, è comunque un altro: sembra sia finito il tempo degli esorcismi o, se si preferisce, del negazionismo. Così il sindaco Alemanno come pure il responsabile della Direzione distrettuale antimafia, Capaldo, sebbene con toni e accenti diversi, segnalano finalmente il “rischio mafia” nella capitale. Il primo, infatti, ha esternato il timore che “ci sia un contatto tra le bande territoriali e la grande criminalità organizzata, che ha già comprato pezzi di economia romana e che si è limitata finora a investire”; il secondo, più prudente, di fronte ai due ultimi assassinati a Ostia, per altro già coinvolti, ma anche usciti pressoché indenni da indagini di criminalità organizzata, che descrive, tuttavia, come “due personaggi profondamente inseriti nel contesto della criminalità organizzata di un certo significato, non marginale, insediata anche a Roma nel traffico di droga e usura, già coinvolti in fatti di sangue e conflitti tra bande”, ha rilevato invece come sia in atto uno “scontro evidente tra due gruppi criminali molto forti”, quantunque non specifichi a quali gruppi si riferisca». ...continua a leggere "Romanzo criminale"

In uno straordinario film del principe De Curtis, Totò Peppino e la malafemmina, l’ignorante Antonio Capone, contadinotto di un paese campano del primo dopoguerra, collocava Milano in Calabria. Oggi qualcuno potrebbe non dargli più torto. Il capoluogo lombardo e l’intera regione sembrano infatti diventate la sesta provincia della Calabria. Anzi, la quattordicesima circoscrizione di Reggio Calabria. A spulciare le ultime inchieste di ’ndrangheta condotte dalla magistratura meneghina, l’unica conclusione è questa: la più potente organizzazione criminale al mondo ha colonizzato la capitale morale del Paese. I suoi tentacoli soffocano gli ingranaggi del motore economico e politico d’Italia, la cui spina dorsale – cioè le imprese, stando ai risultati delle più recenti indagini giudiziarie – ha assimilato talmente bene la linfa della malapianta cresciuta su questo disgraziato lembo del Mediterraneo al punto da non aver mai denunciato né collaborato con la magistratura. Mai. Al Nord la ’ndrangheta controlla militarmente strade e quartieri, anche con le bombe se serve. Tanto nessuno denuncia. Nell’ordinanza dell’ultima operazione firmata dal pool antimafia milanese si legge: madundrina. ...continua a leggere "O mia bella Madu’ndrina"