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Fu Franco Restivo, ex ministro democristiano degli Interni e della Difesa, a far incontrare Don Vito Ciancimino e il misterioso personaggio legato ai Servizi segreti conosciuto col nome di “Signor Franco”. Evocato spesse volte da Massimo Ciancimino nelle aule di tribunale, nei processi dove viene ascoltato dai giudici in qualità di testimone o di imputato di reato connesso, ma non solo. Il figlio di Don Vito, quel “Signor Franco” (spesse volte Signor Carlo), lo fa giocare in un ruolo chiave nelle più intricate vicende palermitane. ...continua a leggere "Stato-mafia, ora si punta al IV livello"

Le “facce da mostro” che giravano in Sicilia negli anni delle stragi di mafia erano due: un discusso agente segreto, con un piede nello Stato e l’altro nelle cosche, e un dipendente regionale vicino all’ex sindaco Ciancimino, che suo figlio Massimo avrebbe già identificato. Entrambi sarebbero morti: il primo nel 2004, il secondo due anni prima. Due ombre, tanti sospetti e solo poche certezze, in quanto soltanto uno di loro, il dipendente regionale, è stato recentemente identificato, attraverso una foto. A dare un nome a quel volto, con quella vistosa cicatrice sulla guancia destra, è stato, per l’appunto, Massimo Ciancimino, il figlio del boss don Vito, quello del “papello” e della trattativa tra Stato e mafia (leggi l’intervista). Due volti sfigurati, inguardabili e indimenticabili, rimasti impressi nella memoria di decine di testimoni e di cui - a distanza di vent’anni da quella stagione di sangue - si sa ancora davvero poco. ...continua a leggere "La doppia pista su “faccia da mostro”"

Un’ombra. Di lui si dice che potrebbe essere ancora in servizio, ma anche che sarebbe morto di tumore. Aveva, o forse ha ancora, il viso deforme: un volto sfigurato, orrendo, paragonabile solo a quello di un mostro. “Faccia da mostro”, così lo chiamano giù in Sicilia, e così lo ha chiamato recentemente anche Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, don Vito, quello del “papello” e della trattativa tra Stato e mafia su cui si indaga ancora. Dopo il super latitante Matteo Messina Denaro, “faccia da mostro”, oggi è il ricercato numero uno.
L’innominabile. Era un agente del Sisde, il servizio segreto civile (oggi Aisi, ndr). Era a Palermo. Nelle storie di mafia, “faccia da mostro”, c’è dentro fino al collo e a quanto pare gli inquirenti, che da anni lo cercano, non lo hanno ancora identificato. Forse a quel volto, di cui esisterebbe solo un confuso identikit, non si potrà mai dare un nome, perché quando qualcuno tenterà di svelarlo, come accade spesso, il segreto coprirà per sempre la sua identità. Il suo nome, anzi il suo soprannome, - legato a quelle inconfondibili caratteristiche del volto dovute, almeno così pare, a un tumore e a una lunga serie di interventi chirurgici - salta fuori la prima volta nell’89. Nessuno lo nomina, la sua identità non è mai stata svelata sulla stampa, ma tutti parlano di quell’uomo misterioso che, come un’ombra, entra ed esce dalle oscure vicende siciliane.
L’Addaura. La prima a parlare di lui è una donna che poco prima del ritrovamento di un ordigno vicino la villa di Giovanni Falcone, all’Addaura, lo notò da quelle parti, dentro un’auto, insieme a un altro individuo. La donna se lo ricorda proprio perché il suo volto era inguardabile. Era il 21 giugno 1989, Falcone aveva affittato per il periodo estivo quella villa sulla costa palermitana. Intorno alle 7.30 tre agenti di polizia trovano sugli scogli, a pochi metri dall’abitazione, una muta subacquea, un paio di pinne, una maschera e una borsa sportiva blu contenente una cassetta metallica. Dentro c’è un congegno a elevata potenzialità distruttiva composto da 58 candelotti di esplosivo. La bomba non esplode, l’attentato fallisce. Qualche ora dopo, in quella villa, Falcone doveva incontrare due colleghi svizzeri: il pm Carla del Ponte e il giudice istruttore Claudio Lehmann, in Sicilia per le indagini sul riciclaggio di denaro. La bomba era per loro. “Faccia da mostro”, dice la testimone, quella mattina era lì.
Il confidente. Ne parla anche la “gola profonda” Luigi Ilardo, il mafioso, cugino e braccio destro del boss Giuseppe “Piddu” Madonia, che nel ‘95 aveva messo sulle tracce di Bernardo Provenzano i carabinieri, ma un anno dopo gli tapparono per sempre la bocca. Ilardo confidò al colonnello Michele Riccio del Ros che a Palermo c’era un agente segreto con la faccia da mostro che frequentava strani ambienti, uno chiacchierato. Il confidente, parlando dello strano agente segreto, disse agli inquirenti: «Di certo questo agente girava imperterrito per Palermo. Stava in posti strani e faceva cose strane».
Le morti sospette. “Faccia da mostro” è legato anche a una lunga scia di sangue e di strane morti, come l’omicidio dell’agente di polizia Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castellucci, avvenuto il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Agostino dava la caccia ai latitanti, pare anche per conto del Sisde, e sembra avesse informazioni sul fallito attentato all’Addaura. Le indagini non hanno mai chiarito, fino in fondo, come sono andate le cose, però sembra che l’agente, poco prima di morire, avesse ricevuto in casa una strana visita, quella di un collega con la faccia deforme. A dirlo è suo padre, Vincenzo, che riferì agli inquirenti che un giorno notò “faccia da mostro” vicino l’abitazione del figlio. Vuole giustizia e cerca la verità da anni, Vincenzo Agostino, non si taglia la barba dal giorno in cui gli hanno ucciso il figlio e la nuora, che era incinta di cinque mesi. Per lui, quell’uomo, era l’inguardabile: «Quell’ uomo è venuto a casa mia, voleva mio figlio. Quel tizio non è soltanto implicato nei fatti di Capaci e di via D’Amelio, ha fatto la strage in casa mia, quella in cui sono morti - disse ai magistrati il padre di Agostino - mio figlio Nino, mia nuora e mia nipote. Due persone vennero a cercare mio figlio al villino. Accanto al cancello, su una moto, c’era un uomo biondo con la faccia butterata. Per me era faccia di mostro». Un altro pesante sospetto lega “faccia da mostro” a un altro delitto, quello dell’ex agente di polizia Emanuele Piazza. Il suo nome in codice era “topo”, collaborava con il Sisde, era amico di Nino Agostino, ma non era ancora un effettivo. Figlio di un noto avvocato palermitano, era un infiltrato e dava la caccia ai latitanti quando, il 15 marzo 1990, scompare nel nulla. Molti anni dopo si saprà che fu “prelevato” con un tranello dalla sua abitazione da un ex pugile, vecchio compagno di palestra, portato in uno scantinato di Capaci, ucciso e sciolto nell’acido. Cercava la verità sulla morte del suo amico Antonino Agostino, forse l’aveva anche trovata, e anche lui sapeva qualcosa sull’Addaura.
La trattativa. Poi, più recentemente, è Massimo Ciancimino, a parlare dell’agente segreto inguardabile e innominabile. Ciancimino junior, però, è in grado di fornire ai magistrati di Caltanissetta e Palermo - quelli che indagano tuttora sugli attentati del ‘92 e sulla trattativa tra Stato e mafia - anche nomi e numeri di cellulare di agenti in contatto con il padre. Quei riferimenti li tira fuori dalle agende del padre, ricche di numeri che contano. Parla di un certo “Franco” e di “Carlo”, ma forse erano i nomi di copertura di un solo 007. Ma Massimo Ciancimino conferma ai magistrati anche che l’uomo con la faccia di un mostro era in contatto con suo padre da anni, ma non ne conosce l’identità. Conferma pure che i contatti con gli spioni sono proseguiti anche dopo la morte del padre e, più di recente, quando decise di consegnare ai magistrati il famoso “papello” con le richieste di Cosa nostra.
L’agenda rossa. Ancora ombre, il 19 luglio 1992, pochi minuti dopo l’esplosione dell’autobomba che ha ucciso Paolo Borsellino e i suoi angeli custodi. Le istantanee sono diverse e ritraggono numerosi agenti in borghese che si muovono in quella terribile scena. Uno di loro - uno dei pochi identificati analizzando quei fotogrammi - era il tenente colonnello dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, accusato (e poi prosciolto) di aver sottratto l’agenda rossa, quella dove il giudice annotava ogni cosa e che teneva sempre con sé. Quell’agenda è scomparsa, l’ufficiale non l’ha rubata, pur essendo stato fotografato con in mano la borsa del giudice. Dentro quella borsa, di fatto, l’agenda non c’era e molti di quei volti fotografati in via D’Amelio non hanno ancora un nome, compreso quello di un altrettanto misterioso personaggio che sembra allontanarsi da quell’inferno tenendo qualcosa sotto la giacca.
Le indagini. “Faccia da mostro”, in Sicilia, dopo Matteo Messina Denaro, oggi è il ricercato numero uno. Lo cercano i magistrati di Palermo e Caltanissetta, che il 18 novembre scorso hanno chiesto ai vertici del Dis la documentazione sugli eccidi di Capaci e via D’Amelio e informazioni su alcuni agenti sotto copertura che potrebbero avere avuto un ruolo nel fallito attentato all’Addaura e sugli omicidi di Emanuele Piazza e Nino Agostino.

Il Punto - di Fabrizio Colarieti - 20 gennaio 2010 [pdf]

downloadIl boss di Cosa Nostra Salvatore Lo Piccolo aveva in mente di eliminare due “infami” e i loro nomi, insieme ai suoi sospetti, li aveva già affidati ad un pizzino. Così la storia di due rapinatori, apparentemente semplici manovali della malavita siciliana, finisce per intrecciarsi con le sorti dell’erede di Bernardo Provenzano arrestato dalla polizia, insieme a suo figlio Sandro, il 5 novembre 2007, dopo ventiquattro anni di latitanza.
I due “infami”, fino a quel momento, non erano poi così noti se non fosse per quella rapina ad una villa compiuta nell’agosto del 2002, sempre a Palermo, nel complesso di Città Giardino. Lo Piccolo, i due fratelli, li vuole morti perché – così scrive in un pizzino – sono in contatto con i servizi segreti di Roma e Palermo.
La storia di Giuseppe e Salvatore Di Lorenzo, così si chiamano i rapinatori, va raccontata proprio da quell’anno, quando smarriscono un cellulare mentre stanno svaligiando la villa della signora D.D.M. A tradirli è proprio questa imperdonabile dimenticanza che lì porterà, dopo mesi di indagini, dietro le sbarre. Da quel cellulare, un Nokia 8210, e in particolare dalla memoria della sim 328/0968568 intestata al pregiudicato Umberto Costa, ma di fatto in uso a Giuseppe Di Lorenzo, si mette piede in un altro mondo.
Lo dice il consulente della Procura di Palermo, Gioacchino Genchi, incaricato dal pubblico ministero Maurizio Agnello, di scovare prove e indizi in quella e in altre sim sequestrate ai Di Lorenzo.
Tra quei numeri c’è qualcosa che va ben oltre quella rapina, in particolare nel traffico della sim 329/2961185, utilizzata da Salvatore Di Lorenzo ma intestata alla suocera.
Genchi, che di mafia e cellulari se ne intende, comprende per primo che i Di Lorenzo non sono solo dei semplici rapinatori. Da quei cellulari e dallo sviluppo dei tabulati delle varie utenze, che il perito definisce in alcuni casi anche “coperte”, vengono estrapolati decine di contatti telefonici con utenze, sia mobili che fisse, dei Carabinieri, della Polizia e di uffici operativi di Roma del Sisde (oggi Aisi, Agenzia informazioni e sicurezza interna).
Addirittura nelle fasi preparatorie ed esecutive della rapina e anche successivamente allo smarrimento del cellulare nella villa, il telefono di Giuseppe Di Lorenzo ha contatti con un sottufficiale dell’Arma, Matteo Di Giovanni, nome in codice Amedeo, in servizio a Palermo. Ma in quei tabulati, oltre agli intensi ed inquietanti rapporti telefonici dei Di Lorenzo con appartenenti alle forze dell’ordine e ai Servizi, c’è anche traccia – così svela Genchi nella sua poderosa relazione – di rapporti con pericolosi esponenti della criminalità organizzata delle cosche del mandamento di San Lorenzo e di Carini. Il consulente fa riferimento, in particolare, ai contatti intercorsi tra i Di Lorenzo e un altro mafioso, nipote di Salvatore Lo Piccolo che in quel momento, nel 2002, compare ancora tra i trenta maggiori ricercati d’Italia.
Concludendo la sua relazione Genchi riassumerà così il lavoro di analisi svolto spulciando tra gli oltre 440mila record di traffico telefonico: “Volendo sintetizzare lo spaccato che emerge dall’analisi dei dati possiamo dire che - nella più bonaria considerazione - appare una possibile sottovalutazione della caratura criminale dei due fratelli. I permanenti rapporti mantenuti con apparati dei Servizi, dei Carabinieri e della Polizia (nelle più disparate articolazioni), - prosegue l’esperto - hanno verosimilmente obnubilato le contestuali attività illecite dei fratelli Di Lorenzo ed il loro organico inserimento in un più elevato contesto criminale”.
Rapporti talmente stretti, a quanto pare, da permettere a Giuseppe Di Lorenzo di sfuggire ad un ordine di cattura che era stato emesso a suo carico, da circa quaranta giorni, dal tribunale di Velletri e che stranamente i carabinieri di Torretta avevano dimenticano in un cassetto. Una leggerezza che permetterà a Di Lorenzo di compiere quella rapina, proprio nei giorni in cui doveva essere già dietro le sbarre. Dal suo tabulato si evince che lo stesso si sentiva costantemente al telefono, anche nelle stesse ore dell’assalto, con i militari che avevano dimenticato di eseguire il suo arresto.
Il cerchio è chiuso. La signora D.D.M., che in casa ha una colluttazione con un rapinatore, riconosce, attraverso una foto mostrata dagli inquirenti, Salvatore Di Lorenzo, ma è solo un ulteriore conferma. I due fratelli, insieme ad altri quattro complici, finiscono in manette mentre la parte d’inchiesta che riguarda i contatti “istituzionali” è ancora top secret.
Ma chi sono veramente Giuseppe e Salvatore Di Lorenzo? Sono due “infami”? Come scrive Lo Piccolo. Oppure sono due confidenti del Sisde? Non sarebbe la prima volta, del resto i Servizi possono intrattenere rapporti, ovviamente a tutela della sicurezza democratica, con criminali e malavitosi.
Inquietanti interrogativi che riportano alla mente, tuttavia, circostanze che videro coinvolto lo stesso servizio segreto civile in torbide vicende su cui tuttora la magistratura siciliana sta tentando di fare luce. Come l’indagine della procura di Caltanissetta che, riprendendo una pista accantonata, indaga, a distanza di sedici anni, sul probabile coinvolgimento del Sisde nella strage di via D’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e i suoi agenti di scorta. Sempre grazie alle indagini del consulente Genchi, infatti, si accertò la presenza di una sede coperta del Sisde sul Monte Pellegrino, che sovrasta Palermo e via d’Amelio, all’interno del Castello Utveggio che ospita il Cerisdi, un centro di ricerche e studi manageriali. La circostanza venne fuori dall’analisi del tabulato del numero 0337/962596, intestato al boss Gaetano Scotto, che chiamò un’utenza fissa del Sisde installata proprio in quel castello. Suo fratello, Pietro Scotto, per conto della società Sielte, compì lavori di manutenzione sull’impianto telefonico della palazzina di via D’Amelio. Lavori necessari, si scoprì successivamente, per intercettare abusivamente la linea telefonica della madre del giudice Borsellino e quindi ottenere la conferma del suo arrivo nel pomeriggio del 19 luglio 1992. Dal castello Utveggio il Sisde scompare subito dopo l’inizio delle indagini e poco altro si sa.
Quella stagione, poi, fu segnata anche da un’altra discussa vicenda giudiziaria, scaturita in una condanna definitiva a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, che vide coinvolto il numero tre del Sisde, Bruno Contrada.
Sono più recenti, ma allo stesso modo inquietanti, infine, i riscontri sulle utenze risultate in uso al Governatore Salvatore Cuffaro, condannato in primo grado a cinque anni di reclusione per favoreggiamento e rivelazione di notizie riservate, nell’ambito dell’inchiesta sulle talpe alla Dda di Palermo. Una di quelle venti sim utilizzate dal presidente della Regione Sicilia, tra il 2001 e il 2002, ricevette 54 chiamate dall’ufficio del Sisde di via Notarbartolo a Palermo.

di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 25 gennaio 2008 [pdf]