L'intervista esclusiva a Gioacchino Genchi realizzata a Palermo il 6 aprile 2011 per Notte Criminale.
[guarda la II parte] - [guarda la III parte]
L'intervista, anche in formato testuale: prima parte - seconda parte.
Giornalisti: quelli bravi non hanno una vita; quelli cattivi non hanno un lavoro. (Wim Kan)
L'intervista esclusiva a Gioacchino Genchi realizzata a Palermo il 6 aprile 2011 per Notte Criminale.
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«Innanzitutto un buongiorno, che sia un buongiorno per tutti. Mi chiamo Gaspare Spatuzza e intendo rispondere alle vostre domande». Così “u tignusu” (il pelato), il pentito anti-premier, al secolo Gaspare Spatuzza, già stretto collaboratore dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e uomo di fiducia del boss corleonese Leoluca Bagarella, si è presentato lo scorso 3 febbraio nell’aula bunker di Firenze dove si sta celebrando il processo per la stragi del ‘93 (Via dei Georgofili a Firenze, 27 maggio; Via Palestro a Milano, 27 luglio; San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma, 28 luglio).
Spatuzza per la Procura di Firenze - che lo ha chiamato come teste al processo che vede imputato l’uomo d’onore Francesco Tagliavia in qualità di «coautore» della strage che distrusse l’Accademia dei Georgofili e uccise 5 persone ferendone altre 48 - è il testimone chiave. Oggi studia teologia e invoca il perdono, è in carcere dal ’97 per 6 stragi e 40 omicidi, si è autoaccusato di aver rubato la Fiat 126 che il 19 luglio 1992 venne impiegata per far saltare in aria Paolo Borsellino e la sua scorta, di aver partecipato all’omicidio di don Pino Puglisi e di aver rapito il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, sciolto nell’acido dopo oltre due anni di prigionia.
Spatuzza, già condannato anche per gli stessi attentati del ‘93, si è presentato in aula completamente vestito di nero, scortato da sette uomini del Gom in “mefisto”, e ha parlato, nascosto da un paravento, per sette ore. Chiede perdono a Firenze e lo aveva già fatto con una lunga lettera inviata nel giugno 2010 all’Associazione dei familiari delle cinque vittime dell’attentato di via dei Georgofili. E “u tignusu” la sua versione la racconta a partire da quei giorni, quelli che precedettero la strage: «Nel maggio 1993 sono arrivato a Firenze da terrorista. Il nostro obiettivo era di colpirla nel cuore e ci siamo riusciti - ha detto il pentito rispondendo alle domande dei pm Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi - oggi dopo 17 anni vengo come collaboratore di giustizia, pentito, e chiedo perdono. Un perdono che può non essere accettato, può essere strumentalizzato, ma dovevo farlo».
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«Sono il dottor Bruno Contrada, ex dirigente generale della Polizia di Stato, nato a Napoli il 2 settembre 1931, domiciliato in Palermo, in atto in detenzione domiciliare per espiazione pena, a seguito della nota sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Palermo, perché condannato per concorso esterno in associazione mafiosa (arrestato il 24 dicembre 1992, condanna divenuta definitiva il 10 maggio 2007)».
Bruno Contrada non può parlare con i giornalisti, né rispondere al telefono e nella sua casa di Palermo, dove per ragioni di salute sta scontando dal 2008 la condanna a 10 anni di reclusione, non può ricevere visite se non quelle del suo avvocato. Ma una settimana fa ha deciso di rompere il silenzio, che durava da anni, presentando un esposto contro il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, Antonio Ingroia. L’ex dirigente della Polizia di Stato, ed ex numero tre del Sisde in Sicilia negli anni delle stragi di mafia, punta il dito contro le pagine del libro “Nel labirinto degli dei: storie di mafia e di antimafia” scritto dallo stesso magistrato palermitano e dato alle stampa nel novembre scorso da “il Saggiatore”.
Contrada contesta un passaggio che lo riguarda direttamente, quello dove il pm Ingroia ricorda l’interrogatorio, da lui condotto, del collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino, il falso pentito “chiave” nei processi sulla strage di Via D’Amelio, condannato in via definitiva a 18 anni dopo essersi autoaccusato di aver procurato la Fiat 126 che fu imbottita di tritolo per uccidere Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta. In quell’interrogatorio, narrato a partire da pagina 81, è proprio Scarantino a tirare in ballo Contrada. ...continua a leggere "Contrada vs Ingroia"
Il problema è nel dna. I Servizi segreti italiani non sono ancora usciti dal tunnel del sospetto e il dopo riforma - quella che doveva rimettere a posto ogni cosa - pare sia un percorso ancora tutto in salita. Un pantano pieno di inciampi con il passato scomodo che continua a incombere.
Giuseppe De Lutiis, uno dei massimi esperti italiani di spie lo ripete anche nel suo libro “Storia dei servizi segreti in Italia” (Editori riuniti): “Non esistono i Servizi segreti deviati, ma le deviazioni dei Servizi segreti”. E forse nelle segrete stanze della nostra intelligence - tra uno scandalo e l’altro - la situazione è ancora questa. Non ha vita facile, perciò, il prefetto Gianni De Gennaro (ex capo della polizia, nella foto), a due anni dalla sua nomina, definita di “alto prestigio”, al vertice del Dipartimento informazioni della sicurezza (il Dis, ex Cesis): il super Servizio che vigila e coordina l’attività delle due agenzie – Aisi e Aise – nate dopo la riforma del 2007 al posto di Sismi e Sisde.
Recentemente, provando a imporre un “volto nuovo” dell’intelligence, anche raccogliendo, per esempio, migliaia di curriculum di giovani italiani interessati a lavorare per i Servizi, proprio De Gennaro disse che era necessario sgombrare il campo dai luoghi comuni e dai pregiudizi legati al passato. Diffondere, insomma, l'idea di una intelligence trasparente e affidabile, che lavora per la difesa del bene comune, integrata nelle dinamiche sociali del Paese. Eppure non solo De Gennaro ha il sentore, leggendo i giornali e ascoltando la tv, che l'unica idea dei Servizi di informazione che passa è l'istituzionalizzazione di un concetto negativo, “semplificato nella più diffusa definizione di Servizi deviati”.
C’è qualcosa che non va, qualcosa che serpeggia nei palazzi, che fa tremare le poltrone, che continua a velare l’immagine dell’intelligence italiana. Un virus che viene da lontano, dagli scandali degli anni settanta - dal Supersismi all’Ufficio affari riservati del Viminale passando per i fondi neri del Sisde dei primi anni novanta. Un virus che si tramanda da generazioni di “barbafinte”, che ha ormai impregnato, come nel caso dell’Aisi (ex Sisde), le pareti della direzione romana via Giovanni Lanza. Là anche il direttore Giorgio Piccirillo (ex carabinieri), pare non abbia vita facile, insieme ai suoi vicedirettori, Nicola Cavaliere (ex polizia) e Paolo Poletti (ex finanza), nel tenere saldo il timone e rinnovare le fila. A mietere vittime, a offuscare l’immagine dell’Agenzia per la sicurezza interna, sono gli scheletri nell’armadio, i sospetti che arrivano dal passato. A Palermo che ruolo ebbero decine di agenti segreti, molti dei quali ancora in servizio, durante la stagione di sangue che vide cadere Falcone e Borsellino? L’onda lunga di quell’epoca vela ancora oggi la rispettabilità del Servizio segreto civile e a mettere tutto in discussione non sono solo le parole di Massimo Ciancimino. ...continua a leggere "Servizi in crisi"