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Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, sindaco mafioso della Palermo più buia della storia, veste dal 2008 i panni dell’icona dell’antimafia, «quella dei fatti e non delle parole». Uno status esibito con fierezza e che Wikipedia riassume così: «Imprenditore italiano, testimone di giustizia». Al telefono con i giornalisti, il figlio più piccolo del vecchio sindaco amico dei boss, è spesso disponibile. Alle procure – da Palermo a Firenze – ha raccontato le sue verità, che non sempre si sono dimostrate tali. Oltre a tanta notorietà, d’altra parte, le sue rivelazioni gli sono costate anche due accuse di calunnia: una a Palermo e l’altra a Caltanissetta. Ma anche una richiesta di rinvio a giudizio (su cui il gup si pronuncerà il 29 ottobre) per concorso in associazione mafiosa nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, di cui Ciancimino jr è uno dei principali testimoni. E forse l’immagine più controversa che accompagna il figlio di don Vito è proprio questa: si ritrova indagato anche quando è testimone dell’accusa.
LA PISTA ROMENA. Il Punto, come tante altre testate, ha ospitato in diverse occasioni le dichiarazioni di Massimo Ciancimino. La prima volta risale a quando il nostro settimanale, giù a Palermo, si era messo sulle tracce del dottor Franco e di “faccia da mostro”: due personaggi, sui quali al momento aleggia ancora l’ombra del mistero, che entravano e uscivano, come ombre, dalle deposizioni del figlio dell’ex sindaco di Palermo. Agenti segreti? Chi può dirlo. Di fatto - e questa è una verità già certificata dagli inquirenti - né Massimo Ciancimino né decine d’investigatori sono riusciti finora a dare un volto e un’identità a questi due soggetti. I giornalisti de Il Punto – compreso il sotto- scritto – hanno trattato Ciancimino come un qualunque altro indagato che vuole dire la propria, cioè riportando le sue parole nel contesto e alla luce di quello che è narrato negli atti giudiziari. Tant’è che il “testimone di giustizia”, all’indomani di un nostro servizio, che a lui evidentemente non era piaciuto molto, se l’era anche un po’ presa. Ma nessuno, quando quel servizio andò in edicola (era il 13 luglio 2012), poteva immaginare che la pista dei rifiuti e degli interessi di Ciancimino in Romania lo rendesse così nervoso. Un motivo, forse, c’era. La Procura di Roma stava indagando sulla stessa vicenda della vendita della discarica di rifiuti più grande d’Europa, a Glina. Proprio quella citata nell’articolo di luglio de Il Punto, ma in relazione al provvedimento del gip di Palermo che aveva respinto l’archiviazione disponendo un supplemento di indagini. ...continua a leggere "Ciancimino, il teste e l’indagato"

ciampoliE' in magistratura da quarantasette anni, ha lottato contro la mafia e il terrorismo di destra e di sinistra, ora siede nello scranno più alto dalla giustizia laziale, la procura generale presso la Corte d’Appello di Roma. Luigi Ciampoli, per la prima volta da quando indossa la toga, si concede a Il Punto in un’intervista a tutto tondo. Dalla mattanza in corso a Roma, fino ai temi caldi della giustizia, passando per Mani pulite e i rapporti tra magistratura e politica, e tra toghe e giornalisti.
Dottor Ciampoli, partiamo dall’ondata di sangue che ha investito la Capitale, cosa sta accadendo?
«Roma non è differente dalle altre città. Ci sono dei fenomeni criminali che fanno parte dell’essere della società d’oggi. E’ il riscontro di una situazione nuova, certamente non condivisa. Oggi ci meravigliamo di tante situazioni e ci sorprendiamo di come sia stato possibile concepire questa violenza, ma, tutto sommato, se facciamo un confronto con il passato, ci accorgiamo che purtroppo l’uomo è sempre stato così com’è, nel bene e nel male. Non è una situazione che determina un nuovo allarme, è una situazione che va, come sempre, tenuta sotto controllo e che sollecita attenzione. Oggi in molti insistono col dire che sono tornati i tempi della Banda della Magliana. Non occorre rispolverare vecchi fantasmi, spettri o spauracchi. La situazione è, come ho detto, figlia del suo tempo».
Sono cambiati i tempi, lei recentemente ha parlato della crisi come una delle cause scatenanti di tanta violenza.
«Ci scontriamo con una realtà politicosociale diversa, abbiamo una polietnia molto più accentuata rispetto a trent’anni fa. Dobbiamo fare i conti e tenere conto, senza ovviamente voler colpevolizzare o stigmatizzare determinati comportamenti, di culture e di estrazione diverse, che pure servono anche all’Italia, ma certamente non determinano allarme solo perché esistono. Siamo di fronte a una situazione diversa che rispolvera un concetto antico, cioè la necessità di amalgamare la società con la cultura giuridica. Non serve cercare patologie, ma rinnovare l’esistenza di determinati valori sì».
C’è molta attesa per l’arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone, vi siete già consultati?
«Sì, ci siamo sentiti. Ho espresso la mia soddisfazione e gli ho già fatto gli auguri. E’ un collega molto serio, preparato e con una grande esperienza e capacità professionale, e questo credo porti a una visione del futuro degli uffici romani favorevole. C’è molto lavoro da fare e Pignatone, ne sono certo, è la persona giusta».
Parliamo di corruzione. Sono passati vent’anni da Tangentopoli e non è cambiato un granché, anzi...
«Siamo di fronte a uno scadimento di valori. Man mano che si abbassa la soglia della differenza tra lecito e illecito aumenta la corruzione. Le faccio un esempio: offrire del denaro a un pubblico ufficiale per ottenere un favore, è un tentativo di corruzione, anche grave, ma è anche l’indice di un valore che non porta soltanto a individuare il livello di corruttibilità del pubblico ufficiale ma anche a sminuire il valore stesso della partecipazione del corruttore alla democrazia. Anche l’evasione fiscale è una forma di corruzione dei valori democratici. Se accetto di evadere, o di concorrere all’evasione non pretendendo lo scontrino fiscale o la fattura, non faccio altro che sminuire, in funzione di una valutazione di un’utilità peraltro molto limitata, il mio valore di partecipazione alla comunità. Il livello di corruzione aumenta perché è salita la valutazione di ciò che è lecito rispetto all’illecito. L’aumento della corruzione è anche frutto dei tempi, delle esigenze e di come concepiamo la vita moderna. Da mani pulite a oggi è aumentata la sfrontatezza e sono diminuiti senso di onestà e percezione del lecito, il tutto favorito da una economia evidentemente più debole. L’esplosione del fenomeno tangentopoli purtroppo non è stato un deterrente».
Giustizia e riforme. Cosa pensa della separazione delle carriere tra giudici e pm?
«La separazione delle carriere la considero inutile e pericolosa. E’ l’individuo che va corretto, non intaccando un principio costituzionale che è uno dei fulcri fondamentali della democrazia. Il pubblico ministero, che ha il coraggio e il dovere di richiedere l’assoluzione dell’imputato se questi è innocente o se non ha le prove per dimostrare la sua colpevolezza, trova in questa norma morale e giuridica la forza di sentirsi autonomo da altri, libero da condizionamenti. Non certamente da una separazione che rimane sulla carta. Partendo dal principio Costituzionale secondo cui i magistrati sono giudici e pubblici ministeri. Non ritengo infatti che il giudizio nei miei confronti possa cambiare solo se il mio ascensore si ferma al piano dei giudici o a quello dei pubblici ministeri, ma solo se faccio il mio lavoro in tutta serenità e obiettività. Ritengo di essere stato uno dei primi, quale pubblico ministero a proporre ricorso per Cassazione a favore di un imputato, superando così l’idea che il pubblico ministero possa solo ed unicamente sostenere l’accusa e la colpevolezza dell’imputato. Effetto che invece sarebbe fatalmente consequenziale alla separazione delle carriere. La severità non è la prevaricazione di norme. Gli errori ovviamente si fanno in tutte le categorie, esistono medici bravi e altri che purtroppo commettono errori fatali, noi pure dobbiamo tenere alto il valore delle nostre responsabilità in considerazione del fatto che anche dal nostro agire può dipendere la vita di un uomo».
E sulla responsabilità civile dei magistrati?
«Sono d’accordo. Tra l’altro esiste già. E’ una legge che può essere migliorata, sensibilizzando i magistrati a non prestare il fianco a giudizi risarcitori. Può essere migliorata anche per quanto riguarda i poteri d’intervento, che dovrebbero essere più incisivi, da parte dei capi degli uffici pur salvaguardando il rispetto della decisione dei colleghi. Sono d’accordo a migliorare il potere di controllo. Perché dare responsabilità alle persone presuppone soprattutto affidamento».
E’ forse arrivato il momento di rimettere mano anche alla geografia giudiziaria?
«Parlerei di rivisitazione della distribuzione degli uffici. Non ci possono essere uffici giudiziari, come la Procura di Roma, dove un solo collega ha tremila processi assegnati e un altro ufficio che ne ha al massimo trecento in un anno. Le risorse sono scarse, indubbiamente, e questo non è un problema solo delle procure, penso alle forze dell’ordine che devono fare i conti con la benzina che scarseggia. E’ una situazione che va avanti da tempo. Da oltre quindici anni non ci sono concorsi pubblici per assumere personale amministrativo per gli uffici giudiziari. Ed è dimostrato, invece, che lavora più un ufficio con un magistrato e cinque collaboratori, che viceversa ».
E sulla lentezza della giustizia?
«Sul discorso dell’efficienza, un processo è un processo. Che sia celere, quando non deve esserlo, è un non processo, cioè nega la giustizia. Se la velocità è una caratteristica essenziale di espletamento di ogni pratica, è un giusto espletamento, ma il processo deve essere privo d’inutilità, più che breve o veloce. Ad esempio in tema di notifiche, a seconda delle varie fasi processuali, dovremmo intervenire per snellirlo. Nel sistema anglosassone, a cui si fa spesso riferimento, c’è una sola notifica iniziale. L’individuo è portato a conoscenza di determinati fatti e da quel momento è suo interesse informarsi, non servono ulteriori comunicazioni».
E’ necessario porre dei freni anche nei rapporti con gli organi d’informazione?
«Non mi piace affidare la conoscenza dell’andamento delle mie procure agli organi di stampa. Lo dico amaramente, ma purtroppo spesso vengo a conoscenza di tante situazioni o di tanti processi aprendo i quotidiani o ascoltando i telegiornali. I magistrati parlano troppo. In tanti anni di magistratura credo sia la mia prima vera intervista, perché ho sempre preferito parlare con gli atti delle mie requisitorie,ed è il modo migliore con cui un magistrato può rispondere alle notizie di stampa. Il magistrato non dovrebbe apparire, quello che deve interessare all’opinione pubblica è che una determinata indagine si sia conclusa felicemente, punto. Perciò meno spettacolarizzazione. Se le affido una notizia, o faccio in modo che lei abbia una notizia, io mi scontro con il suo diritto-dovere di pubblicarla questa è la democrazia. Il discorso è a monte: sono io che non devo farle avere le notizie. E’ un falso problema, bisogna intervenire normativamente facendo in modo che la riservatezza a monte sia tutelata al massimo. Non serve abolire le intercettazioni per evitare che finiscano sui giornali».
Cosa pensa di molti suoi ex colleghi transitati dalla toga alla politica?
«Sono assolutamente contrario. Il magistrato non può e non deve fare politica. Nel senso che a un magistrato nel momento in cui sceglie di candidarsi, e come tutti i cittadini può farlo, deve essere vietato, riesca o non riesca, il rientro in magistratura. Si eviterebbero molte strumentalizzazioni cui abbiamo già assistito. Chi accetta una candidatura o partecipa a una competizione elettorale deve rinunciare alla toga. Nel nuovo ordinamento giudiziario, tra l’altro, esiste il divieto, sancito disciplinarmente, di appartenere a una forza politica ».
Si sente anche lei un partigiano della Costituzione come Ingroia?
«Sono affermazioni d’effetto, mirano solo a quello. Perché l’essere convinto di determinate cose non comporta la necessità di estrinsecarle e non ne vedo la sostanziale utilità. Le rispondo con una frase del Vangelo: non chi entra in Chiesa e si batte il petto davanti a tutti fa la volontà del Padre, ma solo chi nel suo intimo risponde alla sua volontà. Quindi mi posso sentire benissimo partigiano, ma non occorre che lo dica. Dà la stura a sensazioni che possono essere positive e negative. Capisco invece quello che il collega ha voluto dire, cioè di sentirsi veramente impegnato. La Costituzione non ha partigiani, grazie a Dio. Ha un valore democratico che per sua definizione non può essere di una parte, è universale. Ma sentire intimamente il desiderio di fare giustizia, questa è una cosa bellissima».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 15 marzo 2012 [pdf]

Qui radio Viminale: movimenti in vista ai vertici dei servizi segreti, e forse anche della polizia. Mentre nella Capitale arrivano da Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, nominato dal Csm procuratore capo a Roma, e il super-poliziotto che arrestò il boss Bernardo Provenzano, Renato Cortese, che da capo della Squadra Mobile reggina approda al Servizio centrale operativo. Tuttavia la notizia che in queste settimane sta facendo discutere è un’altra, e riguarda un altro super-investigatore: il prefetto, già capo della polizia, Gianni De Gennaro. Il capo del Dis, il potente Dipartimento per le informazioni e la sicurezza che sovrintende l’attività dei due Servizi segreti, potrebbe lasciare il suo incarico in cambio di una nomina ministeriale a delegato per la sicurezza, oppure, ipotesi meno probabile e già vecchia, per approdare ai vertici del gruppo Finmeccanica. La notizia è tornata ad affacciarsi nei giorni scorsi, e a quanto pare sarebbe stato proprio lo stesso De Gennaro, in vista della scadenza del suo mandato iniziato nel maggio del 2008, a comunicare a Palazzo Chigi la scelta di abbandonare il vertice dei Servizi.
Al suo posto potrebbe arrivare Antonio Manganelli, attuale capo della polizia e anch’egli in procinto di lasciare la poltrona. Nessuna novità né avvicendamenti in vista, per quanto riguarda, invece, le direzioni delle due agenzie di spionaggio. A capo dell’ex Sisde, oggi Aisi, dovrebbe rimanere il generale dei carabinieri, Giorgio Piccirillo, in carica dal 2009. Mentre alla guida dell’ex Sismi, oggi Aise, resta il generale dell’Esercito, Adriano Santini, nominato da Palazzo Chigi nel febbraio del 2010. L’altra novità, come accennato, potrebbe riguardare direttamente la polizia di Stato. Antonio Manganelli, in carica dal giugno del 2007, secondo indiscrezioni, sarebbe in procinto di lasciare il proprio incarico per prendere il posto di De Gennaro al Dis. E in lizza verso la direzione generale del Dipartimento della pubblica sicurezza ci sarebbero già diversi nomi. Innanzitutto i più quotati, due prefetti-poliziotti: Giuseppe Caruso, già questore a Roma e Palermo, di cui è stato anche prefetto e attuale direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati alla criminalità organizzata, e Giuseppe Pecoraro, attuale prefetto di Roma la cui candidatura sarebbe fortemente caldeggiata dal Pdl. Ma in corsa ci sarebbe anche l’attuale questore di Roma, Francesco Tagliente. Tra i papabili capi della polizia ci sono, inoltre, altri due prefetti, anche loro già investigatori di lungo corso: Nicola Cavaliere, oggi vicedirettore operativo dell’Aisi, e l’attuale capo del Dipartimento della protezione civile, già direttore del Sisde e prefetto de L’Aquila dopo il sisma del 6 aprile 2009, Franco Gabrielli. Il nome di Gabrielli, nel 2003 promosso sul campo al grado di Dirigente superiore della polizia per il contributo dato alle indagini sulle Nuove Brigate Rosse, è in pole position dopo lo scontro con il sindaco di Roma Alemanno sull’emergenza neve. Nel Pdl in molti scommettono che il numero uno della protezione civile sia in corsa per succedere a Manganelli, un sospetto che lo stesso Alemanno ha sollevato nel corso di una recente puntata di “In onda”, quando, rispondendo alle domande di Telese e Porro, ha detto che «anche Gabrielli deve prendere i voti». ...continua a leggere "Rimpasto di polizia"

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ROMA - C'era un tratto di cielo, la sera del 27 giugno 1980, che non era controllato a sufficienza dai radar italiani, civili e militari. E in quel buco nero sparì il Dc9 Itavia, precipitando nelle acque di Ustica. E' per questo motivo che ieri lo Stato è stato condannato a risarcire le vittime di quella strage irrisolta. A stabilirlo è una sentenza della terza sezione civile del Tribunale di Palermo, che ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti a pagare oltre 100 milioni di euro (più interessi e oneri accessori) a ottanta familiari delle vittime. Affermando anche la precisa responsabilità dei due dicasteri, che non fecero abbastanza per garantire l'incolumità dei 77 passeggeri e dei quattro membri dell'equipaggio di quel volo Itavia 870 che ha segnato un pezzo della nostra storia recente.
Il Dc9 decollato da Bologna - secondo quanto hanno sostenuto i legali dei familiari che nel 2008 intentarono causa nei confronti dello Stato - per raggiungere Palermo attraversò un tratto dell’aerovia Ambra 13 scarsamente vigilato dalla rete radar della Difesa. E in quel buco nero, a metà strada tra le isole di Ponza e Ustica, l’aereo I-Tigi si trovò al centro di una battaglia aerea e finì per diventare un bersaglio, precipitando in mare dopo essere stato colpito da un missile o a causa di una collisione con un altro velivolo.
I familiari delle vittime, invocando l'esistenza del diritto all'accertamento della verità, avevano citato in giudizio i due ministeri affermando che non potevano non essere a conoscenza - prima, durante e dopo la sciagura - che quel tratto di rotta era scarsamente coperto dai radar. Il giudice palermitano Paola Proto Pisani, dopo aver rispolverato l’istruttoria penale condotta dal giudice Rosario Priore, che nel 2007 portò all’assoluzione definitiva degli ultimi due imputati (gli allora vertici dell’Aeronautica militare), afferma oggi che con ogni probabilità intorno al Dc9 c’erano altri aerei, come evidenziarono le registrazioni radar di Ciampino. Una ricostruzione che collima con quanto scrisse Priore nelle conclusioni della sua sentenza-ordinanza, e cioè che fu proprio l’Aeronautica a non informare correttamente il governo sulla presenza d’intenso traffico militare intorno all’ultima “battuta” radar del Dc9.
La sentenza del tribunale di Palermo, che già in passato aveva condannato lo Stato a risarcire altri familiari delle vittime, riapre così lo scivoloso dibattito sull’affaire Ustica. Tutto questo mentre la procura di Roma attende le risposte alle rogatorie internazionali trasmesse lo scorso anno a Francia, Stati Uniti, Germania e Nato dopo le dichiarazioni di Francesco Cossiga che nel corso di alcune interviste (e sotto giuramento davanti ai giudici di Palermo) tirò in ballo l’aviazione francese, affermando che il Dc9 era stato colpito per errore durante un’operazione coperta che doveva portare all’abbattimento di un aereo che trasportava Gheddafi. Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione familiari delle vittime, ha definito la sentenza di Palermo di «elevato spessore civile». «E’ stato finalmente riconosciuto - ha aggiunto - il danno subito dai familiari per la negazione della verità e della giustizia, e questa sentenza è anche la conferma, come abbiamo sempre sostenuto, che quanto avvenne quella notte intorno al Dc9 è scritto nelle conclusioni dell’istruttoria di Priore».

di Fabrizio Colarieti - Il Messaggero, 13 settembre 2011 [pagina originale]

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