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giorgio napolitanoIl boia delle telefonate della discordia tra il presidente Giorgio Napolitano e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza nell'ambito dell’inchiesta sulla trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra, non è ancora entrato in azione. Lunedì 11 febbraio un tecnico incaricato dal Tribunale sarebbe dovuto entrare nella sala server del carcere palermitato dell’Ucciardone con una missione precisa: distruggere i quattro file audio contenenti le conversazioni finite nel mirino della Consulta, dopo il conflitto di attribuzione sorto tra il Capo dello Stato, registrato indirettamente, e la procura di Palermo, che li aveva incisi ascoltando (legalmente) le utenze dell’indagato Mancino. La decisione del gip, Riccardo Ricciardi, che dovrà dare il via libera alla distruzione di quelle registrazioni è slittata all'udienza dell’11 marzo. Un rinvio innescato dal ricorso di un altro co-indagato eccellente:Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, l’ex sindaco mafioso di Palermo, che ha chiesto di ascoltare le conversazioni per accertare se contengano elementi favorevoli alla sua difesa. Ironia della sorte a cancellare le tracce di quelle telefonate era stato chiamato in Sicilia un tecnico della Research control system di Milano. La stessa società finita nei guai per la famosa telefonata – anch'essa intercettata – nel corso della quale Piero Fassino, parlando con Giovanni Consorte all'epoca dell’inchiesta sulla scalata di Unipol alla Bnl, esclamò «abbiamo una banca?». Telefonata finita illegalmente nelle mani di Silvio Berlusconi e subito dopo tra le colonne de Il Giornale, dopo essere stata trafugata dalla sala ascolti della procura di Milano, proprio da un tecnico della Rcs (il processo è sospeso e rinviato a dopo le elezioni). ...continua a leggere "Gli X-Files del Colle"

Il tema spinoso delle intercettazioni sembrava finito nel dimenticatoio. Sorpassato dallo spread impazzito, dall’articolo 18 e dalla caduta anticipata di Silvio Berlusconi, il premier (pardon, l’ex) che – più di altri – provò a caricare sulle spalle degli italiani una paura in più: quella di essere spiati al telefono. Per intenderci stiamo parlando di una materia talmente complicata, quasi quanto regolare il conflitto d’interessi, che ha visto due governi, prima Prodi e poi Berlusconi, alle prese con un ddl mai nato, ma da tutti invocato a gran voce, guarda caso ogni volta che un politico – di destra o di sinistra – finiva intercettato da una procura. La bozza la portò all’attenzione del parlamento una vittima illustre dei telefoni sotto controllo, l’ex guardasigilli Clemente Mastella, il cui traffico telefonico (cosa ben diversa da quello fonico) finì – illegalmente secondo la Procura di Roma – negli atti dell’inchiesta Why Not? condotta dall’allora pm Luigi de Magistris e dal suo consulente, Gioacchino Genchi. Entrambi sono sotto processo, a Roma (la prima udienza ci sarà il prossimo 17 aprile), perché, secondo l’accusa, chiesero alle compagnie telefoniche di “sbirciare” nel traffico di migliaia di utenze, tra le quali anche quelle di parlamentari e agenti segreti, senza chiedere la preventiva autorizzazione alle Camere. ...continua a leggere "Bavaglio & Business"

Dfd è un acronimo, che di per sé non dice nulla. Nell’ambiente giudiziario, invece, in particolare nelle security delle compagnie telefoniche, queste tre lettere sono assai note.

È un apparecchio elettronico, che assomiglia a un server, acronimo di “Distributore fonia dati”. Dove c’è qualcuno che intercetta c’è sempre un Dfd a fare il suo lavoro. È il sistema che permette - tuttora - di trasferire le telefonate “bersaglio” di intercettazione da parte dell’autorità giudiziaria dalle centrali telefoniche alle procure.

Dopo il Dfd, a cascata, ci sono i registratori, cioè le apparecchiature installate nelle sale di ascolto dei tribunali. I Dfd sono prodotti dalla Urmet di Torino. La descrizione del loro funzionamento è in rete: «Costituisce la soluzione necessaria e sufficiente a trasferire al punto di ascolto di una intercettazione, oltre alla fonia, i dati di tracciamento che consistono essenzialmente nell’identificazione del numero telefonico chiamato, di quello chiamante oltre ad altri dati accessori». In sostanza quando la centrale rileva una chiamata, da e per il telefono “monitorato”, il Dfd la spedisce alla procura interessata. Tra le carte dell’inchiesta Telecom-Pirelli si parla molto dei distributori Urmet. ...continua a leggere "Ghioni: “Stilai un report sul rischio di accessi non autorizzati”"

intercettazioniPrimi test per il “grande orecchio”. La centrale unica per le intercettazioni telefoniche, ambientali e informatiche - che dovrebbe mandare in soffitta l’attuale sistema fondato sull’attività di una quarantina di società private che operano per conto delle procure - sembra stia muovendo i primi passi tra grandi interessi e server colabrodo.
Tuttavia del progetto Sispi (acronimo di Sistema sicuro per le intercettazioni), presentato nel 2007 all’allora Guardasigilli Clemente Mastella, se ne sa ancora davvero poco. È un made in Italy, ci sta lavorando il gruppo Finmeccanica, ma non solo, prevede l’impiego di una trentina di server distribuiti su tutto il territorio nazionale in grado di inoltrare i “flussi” di fonia e dati a tutte e 166 le procure. Un’unica regia, di fatto in mano ai privati, che dovrebbe garantire la massima riservatezza alle indagini della magistratura e abbattere i costi delle operazioni di ascolto. Non se ne sa altro, in quanto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha “secretato” i contenuti del progetto che, in via sperimentale, sarebbe già ai nastri di partenza. Nel 2007 le procure italiane, secondo i dati diffusi da via Arenula a ridosso dell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, hanno intercettato più o meno 128mila “bersagli” spendendo complessivamente (per noleggio apparati e oneri imposti dai gestori telefonici) 226 milioni di euro. Tanti danari, questo sì, ma gli italiani “spiati” non sarebbero alcuni milioni, come dichiarò lo scorso anno lo stesso Alfano che parlò di circa 3 milioni di cittadini intercettati nell’arco di un anno. Il ministro spiegò di essere arrivato a quella affrettata conclusione con un calcolo empirico: cioè moltiplicando il numero dei decreti di intercettazione per il numero medio di telefonate che una persona fa o riceve in un giorno. Non è così: gli intercettati sono molti di meno, e di gran lunga. Ogni decreto è un’utenza, e spesso gli indagati ne hanno più di una tra fisse e mobili, e inoltre ci sono le proroghe, che richiedono, a loro volta, ognuna un altro decreto. Il numero degli intercettati, perciò, sfiora al massimo le 70mila unità l’anno.
Oggi funziona così: individuata l’utenza da spiare il pubblico ministero richiede al giudice per le indagini preliminari l’autorizzazione a disporre le operazioni di ascolto, poi lo stesso pm incarica una società privata che effettua materialmente le intercettazioni (telefoniche, informatiche, ambientali e gps) noleggiando alla procura gli apparati necessari, dopo aver chiesto alle compagnie telefoniche (Telecom Italia-Tim, Vodafone, Wind e Tre) di traslare a pagamento, su apposite “linee d’appoggio” che raggiungono le sale di ascolto delle procure, il flusso fonia e dati. Il grosso dei danari se ne va proprio per il noleggio degli apparati (182,6 milioni nel 2007) con una spesa che può variare anche di molto a seconda dei casi. Per ascoltare un telefono si possono spendere, infatti, cifre che vanno dai 3,85 ai 29 euro al giorno. Piazzare una microspia, con un’intrusione in auto o in casa, può costare dai 19 ai 195 euro al giorno. Un business enorme, che accredita sul mercato le cinque società leader del settore: Area, RadioTrevisan, Sio, Innova e Rcs. Tre di queste (la Sio Spa di Cantù, la Rcs Spa di Milano e la Area Spa di Binago), fino al luglio scorso, quando Alfano si è trovato a dover saldare i debiti temendo lo sciopero, erano creditrici nei confronti dello Stato di oltre 140 milioni di euro.
Stando a quanto emerso nelle scorse settimane (Ansa delle 13.52 del 3 dicembre), un manager e un tecnico informatico della Rcs Spa di Milano, acronimo di Research control system, che da quattordici anni noleggia apparati per le intercettazioni alle procure italiane, sarebbero indagati per «rivelazione e utilizzazione del segreto d’ufficio». In estrema sintesi si ipotizza che i due avrebbero violato l’archivio informatico della procura di Milano, rubando da un computer di un magistrato alcuni file (forse audio) di un'inchiesta che coinvolge Silvio Berlusconi. L’inchiesta in questione è quella sulla presunta distrazione di fondi della società Mediatrade, in cui il premier è indagato per appropriazione indebita. Secondo il pm Massimo Meroni, che conduce le indagini sul furto di dati, la longa manus avrebbe “sniffato” su commissione quei file dai contenuti ancora top secret.
Un secondo filone, a cui lavorano gli inquirenti milanesi, coinvolgerebbe la Research control system anche in un’altra vicenda. Tutto ruota attorno all’ulteriore sospetto che i tecnici della società possano aver fornito nel dicembre del 2005 a “Il Giornale” il file dell’intercettazione telefonica nella quale Piero Fassino chiedeva, all’ex numero uno di Unipol Giovanni Consorte, «Ma allora, siamo padroni della banca?». Una grana che ha coinvolto direttamente l’AD della Rcs, Roberto Raffaelli, che il 9 dicembre in procura ha negato ogni addebito affermando di non aver fornito alcun file a Silvio Berlusconi o a “Il Giornale”.
Indubbiamente due brutte storie, se le accuse venissero confermate, ma è bene chiarire che le vicende non riguardano la Rcs in quanto tale, ma il comportamento dei suoi dipendenti. Come d’altra parte anche la questione delle intercettazioni in quanto tali non è in discussione: si tratta di un fondamentale strumento di ricerca della prova oltre che, in molti casi, di un mezzo irrinunciabile per garantire la sicurezza nazionale. Altra questione, invece, sono gli eventuali abusi. Ma confondere l’eccezione con la regola finisce spesso per alimentare paure che solo chi ha qualcosa da nascondere dovrebbe realmente avere.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 24 dicembre 2009 [pdf]