Nel 2009, davanti all’anti-terrorismo italiano, il tunisino salafita Riad Jelassi - primo pentito di al Qaeda che ha scelto di raccontare, in Italia, il suo inferno nel cuore della jihad - pronunciò queste parole che fanno tremare i polsi: «Quando uno muore, va bene, cosa possiamo fare. Quando muore una persona cara, ci dispiace, piangiamo, ma la vita continua. Invece con questi discorsi, quando parlano della morte, insistono nel spiegarti e nel parlare della morte, che diventa un trauma, un’ossessione». E ancora: «Arrivi al punto che quando sei solo a casa, tutto diventa niente! L’unica cosa certa nella vita è la morte. Allora perché devo lavorare? Perché mi devo sposare? Perché devo fare figli? Il giorno della nascita di una persona è praticamente una condanna a morte».
Jelassi, secondo il criminologo che lo ha analizzato su ordine della procura di Milano nel corso di una dozzina di sedute, ha subito un «lavaggio del cervello» da parte degli imam. Si è salvato per un soffio, e poi ha iniziato a raccontare quello che sapeva e quello che ha vissuto sulla sua pelle. Aprendo agli inquirenti italiani un mondo. Il mondo di quei kamikaze che, con i tragici fatti di Parigi, sono tornati a riempire prepotentemente le cronache europee: dagli attentatori-suicidi del 13 novembre fino alla donna che si è fatta esplodere durante il blitz del 18.
A 27 anni, nel 1997, Jelassi era fuggito dalla Tunisia. Voleva studiare musica, ma suo padre, a colpi di cinghiate, non glielo aveva permesso: «Perché la musica è l’arte del diavolo». Tra le mura di casa, dove si praticava la sharia, aveva subito ogni sorta di violenza e umiliazione, fisica e psicologica. Poi un giorno un amico lo aveva convinto a fuggire in Italia, a Milano. È lì che Jelassi si è avvicinato alle moschee, ha iniziato a spacciare documenti falsi in nome di Allah e a guadagnare molto. L’imam è presto diventato la sua figura di riferimento. ...continua a leggere "Jihad, storia di un kamikaze pentito"