Dietro un processo ci sono sempre delle storie. Ci sono le vittime e i loro carnefici, i giudici tenaci e quelli meno coraggiosi, gli avvocati bravi e quelli meno preparati. Dietro questo processo, finito quasi trentatré anni dopo una delle più grandi tragedie del nostro Paese, c’è, innanzitutto, la storia di un uomo. Si chiamava Gaetano La Rocca, aveva 39 anni, faceva l’assicuratore e la sera del 27 giugno 1980 era a bordo del Dc9 dell’Itavia che precipitò in mare, vicino Ustica. Tornava a casa, a Palermo, dopo una trasferta di lavoro a Bologna. La storia di Gaetano La Rocca è tormentata, come quella degli altri ottanta passeggeri del volo IH-870 inghiottiti dalle tenebre mentre intorno a loro si consumava qualcosa che ancora oggi va chiarito fino in fondo. I suoi familiari, nel 1990, furono i primi a capire che erano le istituzioni a dover pagare per quello che era accaduto nei cieli del Tirreno. E di anni, prima di arrivare al primo verdetto, in sede civile, ne hanno attesi ben diciassette.
Il primo giudice che puntò il dito contro lo Stato, nel 2007, fu Gianfranco Di Leo della seconda sezione civile del Tribunale di Palermo. Fu il primo a scrivere che per quanto era successo la notte di Ustica - a prescindere da chi lanciò il missile contro il Dc9 - era lo Stato a dover risarcire le vittime, principalmente per non aver garantito la loro incolumità. Tre anni dopo il giudice Alfredo Laurino della prima sezione civile della Corte d’Appello di Palermo confermò la sentenza di primo grado dando la possibilità ai familiari di Gaetano La Rocca, e a quelli di altre cinque vittime che nel frattempo si erano aggiunti in giudizio, di ottenere il risarcimento. «Circa le due opzioni formulate per individuare le cause della caduta dell’aereo - scriveva Laurino nella sua sentenza -, e cioè l’abbattimento ad opera di un missile, o l’esplosione interna, la Corte ritiene accertata, nel rispetto degli standards di prova sopra specificati, la prima», cioè il missile. ...continua a leggere "Ustica, una verità inconfessabile"
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Quello che so e quello che vorrei sapere dal generale Tricarico
In queste ore, di fronte all’ennesimo colpo di scena sulla Strage di Ustica, in molti mi hanno chiesto di commentare la notizia della condanna dei ministeri del Trasporti e della Difesa a risarcire i familiari di alcune vittime del Dc9. Altri, che da anni seguono stragi80.it, mi hanno semplicemente fatto sapere che è anche merito nostro - e di chi ha dedicato molti anni della propria carriera a questa brutta storia - se si è raggiunto un traguardo così importante.
Stiamo alle notizie. La Cassazione ha scritto che il Dc9, quella notte, fu abbattuto da un missile e che lo Stato non garantì l’incolumità dei passeggeri di un volo che percorreva un’aerovia civile in tempo di pace, tornando così ad accreditare, con il sigillo di una sentenza definitiva, una tesi antica quanto questa vicenda. Un sospetto - sostenuto da sufficienti elementi di prova - che aleggia attorno all’affaire Ustica fin dalla notte del 27 giugno 1980, quando Ciampino perse i contatti con il volo IH-870.
Non ho intenzione di ripercorrere quelle ore, ma su Ciampino voglio spendere alcune parole. Di Ciampino abbiamo il tracciato radar, l’unica prova, documentale, sopravvissuta alla sistematica azione di depistaggio e distruzione di prove che ha accompagnato il caso Ustica in questi anni. ...continua a leggere "Quello che so e quello che vorrei sapere dal generale Tricarico"
Ustica, ministeri condannati
ROMA - C'era un tratto di cielo, la sera del 27 giugno 1980, che non era controllato a sufficienza dai radar italiani, civili e militari. E in quel buco nero sparì il Dc9 Itavia, precipitando nelle acque di Ustica. E' per questo motivo che ieri lo Stato è stato condannato a risarcire le vittime di quella strage irrisolta. A stabilirlo è una sentenza della terza sezione civile del Tribunale di Palermo, che ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti a pagare oltre 100 milioni di euro (più interessi e oneri accessori) a ottanta familiari delle vittime. Affermando anche la precisa responsabilità dei due dicasteri, che non fecero abbastanza per garantire l'incolumità dei 77 passeggeri e dei quattro membri dell'equipaggio di quel volo Itavia 870 che ha segnato un pezzo della nostra storia recente.
Il Dc9 decollato da Bologna - secondo quanto hanno sostenuto i legali dei familiari che nel 2008 intentarono causa nei confronti dello Stato - per raggiungere Palermo attraversò un tratto dell’aerovia Ambra 13 scarsamente vigilato dalla rete radar della Difesa. E in quel buco nero, a metà strada tra le isole di Ponza e Ustica, l’aereo I-Tigi si trovò al centro di una battaglia aerea e finì per diventare un bersaglio, precipitando in mare dopo essere stato colpito da un missile o a causa di una collisione con un altro velivolo.
I familiari delle vittime, invocando l'esistenza del diritto all'accertamento della verità, avevano citato in giudizio i due ministeri affermando che non potevano non essere a conoscenza - prima, durante e dopo la sciagura - che quel tratto di rotta era scarsamente coperto dai radar. Il giudice palermitano Paola Proto Pisani, dopo aver rispolverato l’istruttoria penale condotta dal giudice Rosario Priore, che nel 2007 portò all’assoluzione definitiva degli ultimi due imputati (gli allora vertici dell’Aeronautica militare), afferma oggi che con ogni probabilità intorno al Dc9 c’erano altri aerei, come evidenziarono le registrazioni radar di Ciampino. Una ricostruzione che collima con quanto scrisse Priore nelle conclusioni della sua sentenza-ordinanza, e cioè che fu proprio l’Aeronautica a non informare correttamente il governo sulla presenza d’intenso traffico militare intorno all’ultima “battuta” radar del Dc9.
La sentenza del tribunale di Palermo, che già in passato aveva condannato lo Stato a risarcire altri familiari delle vittime, riapre così lo scivoloso dibattito sull’affaire Ustica. Tutto questo mentre la procura di Roma attende le risposte alle rogatorie internazionali trasmesse lo scorso anno a Francia, Stati Uniti, Germania e Nato dopo le dichiarazioni di Francesco Cossiga che nel corso di alcune interviste (e sotto giuramento davanti ai giudici di Palermo) tirò in ballo l’aviazione francese, affermando che il Dc9 era stato colpito per errore durante un’operazione coperta che doveva portare all’abbattimento di un aereo che trasportava Gheddafi. Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione familiari delle vittime, ha definito la sentenza di Palermo di «elevato spessore civile». «E’ stato finalmente riconosciuto - ha aggiunto - il danno subito dai familiari per la negazione della verità e della giustizia, e questa sentenza è anche la conferma, come abbiamo sempre sostenuto, che quanto avvenne quella notte intorno al Dc9 è scritto nelle conclusioni dell’istruttoria di Priore».
di Fabrizio Colarieti - Il Messaggero, 13 settembre 2011 [pagina originale]
Segreti duri a morire
Il presidente Francesco Cossiga, grande conoscitore del mondo dell'intelligence, amava ripetere che vi sono delle verità che è meglio che in certi momenti non si sappiano. Si riferiva ai segreti di Stato e ai tanti omissis di cui la storia repubblicana è lastricata. Muri di gomma contro cui si scontrano, cercando la verità nei meandri degli archivi governativi, magistrati, studiosi e giornalisti. Cambiano le leggi e gli interlocutori, ma i segreti - quelli veri - restano al loro posto con un timbro indelebile che li classifica. E' l'altra faccia della storia del nostro Paese: quella non ancora scritta, quella che in certi momenti è meglio che non si sappia. La verità sul sequestro dell'onorevole Aldo Moro, la morte di Enrico Mattei, il ruolo della P2 e dei servizi deviati nella strage di Piazza Fontana, in quella di Bologna e in quella di Ustica, fino ai giorni nostri, passando per la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, il sequestro dell'Imam egiziano Abu Omar e lo scandalo Telecom-Sismi. Segreto di Stato. Oltre non si può andare. Sono tutti obbligati a fermarsi, chi indaga e chi scrive.
E' il muro che si è trovato di fronte anche Claudio Gatti, inviato speciale del Sole 24 Ore, che ha provato a bussare alla porta degli archivi dei Servizi credendo che dopo 30 anni qualcuno gli avrebbe dato l'opportunità di fare il suo lavoro, cioè cercare la verità e possibilmente raccontarla. Come spiega lui stesso, in un pezzo pubblicato lo scorso 12 luglio, ha trascorso gli ultimi tre anni "facendo richieste e avendo incontri con la controparte negli apparati dello Stato per definire insieme l'istruttoria dell'istanza di accesso agli atti". Lo ha fatto avvalendosi di una legge dello Stato, la 124 del 2007, con cui sono stati riformati gli apparati di sicurezza, in particolare l'articolo 39 (comma 7 e 8 ) che regola la "disciplina del segreto". ...continua a leggere "Segreti duri a morire"