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roberto adinolfiAnche le pistole possono rivendicare un’azione. E quella che il 7 maggio ha gambizzato a Genova l’amministratore delegato dell’Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, non è una pistola qualunque. A terra, in via Montello, nel cuore del quartiere Marassi, i carabinieri hanno trovato un bossolo calibro 7,62 dal fondello inciso con caratteri cirillici. Potrebbe essere uscito dalla canna di una semi-automatica di fabbricazione sovietica, una TT-33 Tokarev. Un’arma da guerra, molto affidabile, che in passato ha firmato numerose azioni e che fa pensare a una sola matrice, quella eversiva. E non a caso, chi indaga sull’attentato ad Adinolfi si appresta a contestare l’aggravante della finalità di terrorismo, sempre se si riuscirà a dare un volto ai due individui che hanno portato a termine l’azione con tecniche brigatiste, avvicinando il dirigente in sella a una moto Yamaha XMax, poi abbandonata a poca distanza dal luogo dell’agguato.
L’INCUBO EVERSIONE. In Italia torna così l’incubo della violenza politica, dopo che il piombo aveva smesso di parlare quell’assurdo e incomprensibile linguaggio, retaggio degli Anni ’70. L’ultima vittima della lotta armata, firmata Brigate rosse, fu il giuslavorista Marco Biagi, assassinato dalle Br guidate da Nadia Desdemona Lioce, a Bologna il 19 marzo 2002. Prima di lui, il 20 maggio 1999, la stessa sorte era toccata al consulente del ministero del Lavoro, Massimo D’Antona, freddato dalle stesse Br a Roma, in via Salaria. Sembrava finita. Anche le relazioni semestrali dei Servizi segreti avevano smesso di segnalare, tra le minacce interne, quella vetero-brigatista, lasciando quello spazio agli anarchici della Fai (Federazione anarchica informale), o a quelli insurrezionalisti specializzati in pacchi bomba. Invece no, l’attentato ad Adinolfi ha tutte le caratteristiche di un’azione brigatista, studiata nei minimi particolari, a partire proprio dalla scelta dell’obiettivo, della città, simbolo della lotta politica, e dall’arma impiegata. Mancava solo la rivendicazione. Prima alcuni post di “appoggio”, diffusi su Indymedia, a firma dei Gruppi armati proletari, poi un documento di quattro pagine inviato al Corriere della Sera da un sedicente Nucleo “Olga” della Fai, in onore di Olga Ikonomidou, anarchica greca in carcere dallo scorso anno. Nel documento, ritenuto attendibile dagli inquirenti, Adinolfi viene definito uno dei tanti «stregoni dell’atomo», responsabile, insieme al’ex ministro Claudio Scajola, «del rientro del nucleare in Italia». Secondo gli investigatori dell’antiterrorismo l’assenza di una rivendicazione era un’anomalia, ma anche la sua ritardata diffusione è fisiologica, perché, spiegano, «per poter rivendicare un’azione è necessario assicurarsi che chi l’ha compiuta sia al sicuro».
LE INDAGINI. Il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, parlando dell’attentato ad Adinolfi, ha riferito che si stanno battendo tre piste: quella vetero-brigatista, quella anarcoinsurrezionalista e quella legata agli interessi dell’Ansaldo Nucleare nell’Est europeo. A quella che potrebbe associare l’attentato alla matrice brigatista, ha aggiunto la Cancellieri, possono ascriversi «le modalità con le quali è avvenuto l’agguato, in particolare l’uso di un’arma da fuoco e la preparazione che lo ha preceduto, che sembra dimostrare una certa capacità organizzativa». D’altra parte, ha ricordato il titolare del Viminale, «non sono mancati in passato episodi intimidatori, ascrivibili a soggetti dell’area marxista-leninista, in cui ricorrono elementi di affinità e analogia operativa con questo attentato, come ad esempio il ricorso a pallottole calibro 7.62 Tokarev». Quanto alla pista anarchica la Cancellieri ha ricordato che nel marzo del 2009 fu diffuso sul web «un documento in cui, pur in completa assenza di minacce specifiche, erano stati indicati numerosi manager di diverse società impegnate nel settore dell’energia nucleare, fra i quali anche Roberto Adinolfi». Anche se va aggiunto che gli anarchici, come noto, difficilmente compiono azioni utilizzando armi da fuoco. Per quanto riguarda invece la pista commerciale, il ministro dell’Interno ha riferito che l’Ansaldo ha recentemente sviluppato la propria attività nell’Est europeo, con particolare riferimento alla Romania, all’Ucraina e alla Russia, attraverso la costruzione di nuove centrali nucleari e la gestione dei rifiuti radioattivi, e tutto ciò potrebbe aver prodotto «reazioni di natura violenta indirizzate verso l’amministratore delegato». Peraltro, ha osservato la Cancellieri, «tale eventualità potrebbe trovare riscontro nell’uso della pistola Tokarev, diffusa negli ambienti criminali dell’Est Europa». Gli investigatori del Ros dei carabinieri stanno analizzando il proiettile usato per l’agguato, per capire se l’arma che l’ha esploso era stata già utilizzata in precedenti azioni. Proiettili simili, compatibili con la Tokarev, e un manuale d’uso di questa pistola, vennero sequestrati proprio a Genova. E sempre nel capoluogo ligure, nel giugno del 2009, la Digos, perquisendo l’abitazione di Riccardo Massimo Porcile, poi condannato a Roma per terrorismo, trovò una scheda tecnica di due modelli di pistole Tokarev (la TT30 e la TT33). La perquisizione a Porcile, attualmente detenuto a Catanzaro, fu disposta nell’ambito dell’inchiesta su un gruppo accusato di aver progettato la ricostituzione del “Partito armato” sulla falsariga delle Brigate rosse. Ha parlato di pista anarchica anche il capo della polizia, Antonio Manganelli, confermando che gli investigatori guardano «all’area antagonista armata, dove sfumano i confini tra gruppi marxisti-leninisti e anarco-insurrezionalisti».
L’INTELLIGENCE. Nell’ultima relazione al governo l’intelligence interna fa riferimento a uno scenario di rischio multiforme, «con un’accresciuta capacità d’impatto sulla sicurezza nazionale in correlazione con l’acuirsi della congiuntura di crisi». L’Aisi conferma che tra le minacce ci sono gli sviluppi delle «progettualità antagoniste e i fermenti dell’area eversiva». Secondo gli elementi raccolti dagli 007, «l’aggravarsi della crisi economica e le misure adottate per fronteggiarla sono ritenute dal circuito antagonista una favorevole opportunità per riproporre schemi “movimentisti” tesi a catalizzare e radicalizzare il disagio sociale». La “galassia del dissenso”, secondo i Servizi, e  frammentata e caratterizzata da divergenze che marcano i differenti percorsi ideologici e tattici delle sue varie componenti. Si parla di «residui circuiti di matrice marxista-leninista ispirati all’esperienza brigatista», numericamente esigui, ma comunque convinti che la crisi economica, e l’inasprirsi delle condizioni di vita, siano «condizioni favorevoli per alimentare l’insanabile contrapposizione proletariato/borghesia». Per gli analisti dell’Aisi, quindi, è concreta la possibilità che tali circuiti, anche su input filtrati dalle carceri, «intensifichino gli sforzi nei confronti di “nuove leve” sensibili al richiamo di forme di lotta radicale» e ipotizzano «che nel breve/medio periodo individualità d’ispirazione rivoluzionaria, suggestionate dall’impatto della “rabbia” sociale, tentino di aggregarsi per eseguire e rivendicare attacchi – anche di non elevato spessore – contro simboli e obiettivi del “potere costituito”, allo scopo di mantenere alta la tensione e verificare l’eventuale “risposta” o “chiamata” di altre componenti propense a intraprendere un percorso di lotta armata». Alto anche il rischio – e potrebbe essere il caso della gambizzazione di Adinolfi – di azioni emulative compiute da soggetti che intendono accreditarsi, anche rispolverando vecchie sigle.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 24 maggio 2012 [pdf]

de gennaroServizi segreti, ma non troppo. Perché la promozione e la diffusione della cultura della sicurezza e dell’intelligence, nell’era della trasparenza voluta da Gianni De Gennaro, ora passa per la rete e le università. Da qualche giorno sono disponibili, e liberamente consultabili online sul sito sicurezzanazionale.gov.it, i “Quaderni di intelligence”, costola della rivista ufficiale dei servizi segreti italiani Gnosis. La collana è dedicata, per l’appunto, alla promozione e alla diffusione della cultura della sicurezza e delle discipline scientifiche sull’intelligence. Insomma, i servizi si mettono in vetrina. «L’intento - si legge sul sito della Sicurezza nazionale - è quello di fornire spunti per la riflessione su dottrina e prassi della funzione informativa nel terzo millennio. Tale riflessione, avviata in seno al Sistema d’informazione per la sicurezza della Repubblica, potrà così giovarsi del contributo della società civile, favorendo un’interazione tra chi è chiamato a “fare” intelligence, i fruitori dell’attività di informazione per la sicurezza e la cittadinanza intera, alla cui tutela l’intelligence è preordinata».
L’INIZIATIVA. I “Quaderni di intelligence” sono proposti ai lettori sia in forma cartacea sia in formato digitale e sono consultabili anche attraverso i lettori e-book. Si tratta del primo rapporto sullo stato della cultura della sicurezza in Italia e sulle sue prospettive di sviluppo nato dalla collaborazione tra il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza - l’organismo diretto dal prefetto De Gennaro che sovrintende all’attività dei due Servizi (Aisi e Aise) - e tre universita  italiane. Gli atenei coinvolti (Luiss “Guido Carli” di Roma, la Scuola superiore di studi universitari di perfezionamento Sant’Anna di Pisa e l’Università europea di Firenze) hanno messo a disposizione dell’intelligence le loro strutture e offerto ai loro docenti l’opportunità di partecipare all’avvio di un’ampia riflessione sui temi della sicurezza nazionale. Al progetto hanno partecipato giuristi, economisti, politologi, ambasciatori, magistrati, avvocati dello Stato, prefetti ed ex responsabili di apparati della sicurezza. «La legge sul Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica - si legge nell’introduzione del primo numero dei Quaderni - affida al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza un compito del tutto nuovo per i nostri apparati informativi: la promozione e la diffusione della cultura della sicurezza, alle quali affianca, ancora una volta innovando radicalmente rispetto al passato, la comunicazione istituzionale. Nello stesso tempo, la legge ha significativamente ampliato il campo d’azione delle due Agenzie di informazioni per la sicurezza, aggiungendo alla difesa dell’indipendenza e dell’integrità dello Stato democratico la protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici e industriali del nostro Paese. Di fronte ad un quadro normativo così radicalmente mutato, - prosegue l’introduzione - per impostare le attività volte alla promozione e diffusione della cultura della sicurezza, il Dis ha costituito un ristretto gruppo di qualificati esponenti del mondo accademico e istituzionale, che ha definito un programma d’iniziative per avviare la discussione pubblica sui temi della sicurezza nazionale alla luce della nuova missione istituzionale assegnata dalla riforma ai servizi di informazione». Nel primo numero dei Quaderni trovano spazio alcune importanti riflessioni che mettono a fuoco un ristretto novero di idee-forza sulle quali l’intelligence intende aprire un dibattito pubblico «orientato alla costruzione di una nuova cultura della sicurezza, anche in relazione ai temi cruciali che tuttora si pongono per l’attuazione della riforma». Si va dal rapporto tra la comunità dell’intelligence e le università, e tra servizi segreti e politica, alle missioni dell’intelligence e l’interesse nazionale, la riservatezza delle informazioni per la sicurezza nazionale, l’apporto dell’intelligence all’economia nazionale e al sistema-Paese, le professionalità e i talenti per l’intelligence, ma anche il rapporto tra l’intelligence e il mondo della comunicazione.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 12 aprile 2012 [pdf]

genova01GNei corridoi del Viminale lo chiamano “effetto Diaz”. E’ la spada di Damocle che incombe sulla polizia di Stato e che, da qui a qualche mese, potrebbe condizionare ogni decisione, comprese nomine e avvicendamenti ai vertici (anche dei servizi segreti). E’ tutto legato agli esiti dell’ultimo processo, quello per la brutta storia dell’irruzione alla scuola Diaz di Genova durante il G8 del 2001, che vede imputati alcuni dirigenti della polizia di primissimo livello. Dovrebbe concludersi a metà giugno, in Cassazione (le udienze sono fissate dal giorno 11 al 15), ma su di esso incombe la prescrizione dei reati (quello di calunnia lo è già, mentre per il falso scatterà a 12 anni e mezzo dal fatto). In Appello, nel maggio 2010, ribaltando la sentenza di primo grado del tribunale di Genova, i giudici avevano condannato i 25 imputati a complessivi 98 anni e tre mesi di reclusione con l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Tra questi spiccavano - e spiccano ancora oggi in attesa del verdetto della corte suprema - i nomi di Francesco Gratteri, ex capo del Servizio centrale operativo (attuale direttore centrale della polizia criminale, assolto in primo grado e condannato a 4 anni), Gilberto Caldarozzi, ex vicecapo dello Sco (attuale capo dello Sco, assolto e poi condannato a 3 anni e 8 mesi), Vincenzo Canterini, ex comandante del primo Reparto mobile di Roma (oggi ufficiale di collegamento dell’Interpol a Bucarest, assolto e condannato a 5 anni) e Giovanni Luperi, ex vicedirettore dell’Ucigos (oggi capo Dipartimento analisi dell’Aisi, assolto e condannato a 4 anni). Erano tutti presenti a Genova la notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 e secondo le motivazioni della sentenza d’appello, in base all’articolo 40 del codice penale, avevano l’obbligo di impedire le violenze che si consumarono durante la sanguinosa irruzione nella scuola Diaz (93 arresti e 82 feriti). Il blitz, ordinato dagli allora vertici della polizia, fu definito da uno degli imputati, Michelangelo Fournier, all’epoca vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma (in appello prosciolto per intervenuta prescrizione), «una macelleria messicana». Odissea terminata per altri due imputati eccellenti: l’ex capo della polizia e attuale direttore del Dis, Gianni De Gennaro, e l’allora capo della Digos di Genova, oggi dirigente della Polfer a Torino, Spartaco Mortola, assolti in via definitiva nel novembre scorso, perché il fatto non sussiste. Quest’ultimi erano accusati (sempre per i fatti della Diaz) di aver istigato alla falsa testimonianza l’ex questore del capoluogo ligure, Francesco Colucci. L’impatto del prossimo verdetto della Cassazione potrebbe condizionare, e non di poco, il valzer di nomine riguardanti i vertici di tutti gli uffici centrali della polizia, compreso lo Sco e la poltrona più alta, quella del capo, al momento occupata dal prefetto Antonio Manganelli. I nomi in corsa - come già anticipato da Il Punto - sono diversi. Tra i più quotati ci sono quelli di due prefetti-poliziotti: Giuseppe Caruso, già questore a Roma e Palermo, di cui è stato anche prefetto e attuale direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati alla criminalità organizzata, e Giuseppe Pecoraro, attuale prefetto di Roma la cui candidatura sarebbe fortemente caldeggiata dal Pdl. Ma in corsa per occupare il posto di Manganelli ci sarebbero anche due investigatori di lungo corso: Nicola Cavaliere, oggi vicedirettore operativo dell’Aisi, e l’attuale capo del Dipartimento della protezione civile, già direttore del Sisde e prefetto de L’Aquila dopo il sisma del 6 aprile 2009, Franco Gabrielli. L’“effetto Diaz” potrebbe condizionare anche la carriera dell’attuale direttore dello Sco, Gilberto Caldarozzi, e quella di Francesco Gratteri, attuale direttore centrale del Dipartimento anticrimine. Il governo, sentito il Viminale, tra maggio e giugno potrebbe mettere mano alle nomine, in concomitanza sia con la sentenza della Diaz sia con la scadenza dei mandati dei direttori di Aisi e Aise, Giorgio Piccirillo e Adriano Santini.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 29 marzo 2012 [pdf]

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Quattordici anni lontani, distanti uno dall’altro. Le morti di Aldo Moro e di Paolo Borsellino sembrano essere legate dal tradimento. Di quella parte di Stato che entrambi, con ruoli diversi difendevano. E per il quale hanno, alla fine, dato la vita. Le lettere scritte da Moro durante i 55 giorni della prigionia sono un potente e implacabile atto d’accusa per la politica italiana. Le ultime rivelazioni che giungono da Caltanissetta sugli ultimi giorni di Borsellino rappresentano un colpo micidiale per la credibilità della lotta alla mafia.
C’è un luogo ben preciso e ricco di significati dove lo Stato e l’anti Stato si incontrano. È il Cafè de Paris, da simbolo della Dolce Vita romana negli Anni Sessanta a emblema dell’infiltrazione criminale nella Capitale nei nostri giorni. A pochi giorni di distanza dal 16 marzo 1978, giorno del sequestro di Aldo Moro, Francesco Fonti – oggi meglio conosciuto come il pentito che ha raccontato le vicende delle navi dei veleni - viene convocato dalla sua cosca, Romeo, a San Luca e gli viene detto di andare a Roma. Dalla Dc calabrese erano venute pressanti richieste alle cosche per attivarsi al fine della liberazione di Moro. Pressioni – ricorda Fonti - erano venute anche dalla segreteria nazionale e dal segretario Benigno Zaccagnini, morto a Ravenna il 5 novembre 1989. Fu proprio nel locale di via Veneto, che Fonti incontrò l’esponente democristiano: «E’ un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico – disse il politico - e non avrei mai potuto pensare che oggi potessi essere seduto davanti a lei in qualità di petulante, ma è così». Fonti ricorda come Zaccagnini non facesse nulla per nascondere il proprio “schifo”: «Non sono mai sceso a compromessi - riprese - ma se sono venuto ad incontrarla significa che il sistema sta cambiando, faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva, ci dia una mano e la Dc di cui mi faccio garante saprà sdebitarsi». Prima di andarsene, disse: «Non ci siamo mai incontrati se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona lo dica all’agente Pino». Quello che Zaccagnini non sapeva era che Fonti, uomo organico all’organizzazione criminale, da nove anni frequentava con profitto le stanze di Forte Braschi. E che già conosceva l’agente Pino. Moro non venne salvato. Certo non per colpa di Fonti che, anzi, tornato in Calabria, riferì delle ricerche avviate. Ma venne bruscamente stoppato: «La vicenda non interessa più», gli fu detto. ...continua a leggere "Da via Fani a via D’Amelio, il filo rosso che unisce le morti di Moro e Borsellino"