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Il presidente Francesco Cossiga, grande conoscitore del mondo dell'intelligence, amava ripetere che vi sono delle verità che è meglio che in certi momenti non si sappiano. Si riferiva ai segreti di Stato e ai tanti omissis di cui la storia repubblicana è lastricata. Muri di gomma contro cui si scontrano, cercando la verità nei meandri degli archivi governativi, magistrati, studiosi e giornalisti. Cambiano le leggi e gli interlocutori, ma i segreti - quelli veri - restano al loro posto con un timbro indelebile che li classifica. E' l'altra faccia della storia del nostro Paese: quella non ancora scritta, quella che in certi momenti è meglio che non si sappia. La verità sul sequestro dell'onorevole Aldo Moro, la morte di Enrico Mattei, il ruolo della P2 e dei servizi deviati nella strage di Piazza Fontana, in quella di Bologna e in quella di Ustica, fino ai giorni nostri, passando per la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, il sequestro dell'Imam egiziano Abu Omar e lo scandalo Telecom-Sismi. Segreto di Stato. Oltre non si può andare. Sono tutti obbligati a fermarsi, chi indaga e chi scrive.
E' il muro che si è trovato di fronte anche Claudio Gatti, inviato speciale del Sole 24 Ore, che ha provato a bussare alla porta degli archivi dei Servizi credendo che dopo 30 anni qualcuno gli avrebbe dato l'opportunità di fare il suo lavoro, cioè cercare la verità e possibilmente raccontarla. Come spiega lui stesso, in un pezzo pubblicato lo scorso 12 luglio, ha trascorso gli ultimi tre anni "facendo richieste e avendo incontri con la controparte negli apparati dello Stato per definire insieme l'istruttoria dell'istanza di accesso agli atti". Lo ha fatto avvalendosi di una legge dello Stato, la 124 del 2007, con cui sono stati riformati gli apparati di sicurezza, in particolare l'articolo 39 (comma 7 e 8 ) che regola la "disciplina del segreto". ...continua a leggere "Segreti duri a morire"

L'intervista esclusiva a Gioacchino Genchi realizzata a Palermo il 6 aprile 2011 per Notte Criminale.

[guarda la II parte] - [guarda la III parte]

L'intervista, anche in formato testuale: prima parte - seconda parte.

«Innanzitutto un buongiorno, che sia un buongiorno per tutti. Mi chiamo Gaspare Spatuzza e intendo rispondere alle vostre domande». Così “u tignusu” (il pelato), il pentito anti-premier, al secolo Gaspare Spatuzza, già stretto collaboratore dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e uomo di fiducia del boss corleonese Leoluca Bagarella, si è presentato lo scorso 3 febbraio nell’aula bunker di Firenze dove si sta celebrando il processo per la stragi del ‘93 (Via dei Georgofili a Firenze, 27 maggio; Via Palestro a Milano, 27 luglio; San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma, 28 luglio).
Spatuzza per la Procura di Firenze - che lo ha chiamato come teste al processo che vede imputato l’uomo d’onore Francesco Tagliavia in qualità di «coautore» della strage che distrusse l’Accademia dei Georgofili e uccise 5 persone ferendone altre 48 - è il testimone chiave. Oggi studia teologia e invoca il perdono, è in carcere dal ’97 per 6 stragi e 40 omicidi, si è autoaccusato di aver rubato la Fiat 126 che il 19 luglio 1992 venne impiegata per far saltare in aria Paolo Borsellino e la sua scorta, di aver partecipato all’omicidio di don Pino Puglisi e di aver rapito il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, sciolto nell’acido dopo oltre due anni di prigionia.
Spatuzza, già condannato anche per gli stessi attentati del ‘93, si è presentato in aula completamente vestito di nero, scortato da sette uomini del Gom in “mefisto”, e ha parlato, nascosto da un paravento, per sette ore. Chiede perdono a Firenze e lo aveva già fatto con una lunga lettera inviata nel giugno 2010 all’Associazione dei familiari delle cinque vittime dell’attentato di via dei Georgofili. E “u tignusu” la sua versione la racconta a partire da quei giorni, quelli che precedettero la strage: «Nel maggio 1993 sono arrivato a Firenze da terrorista. Il nostro obiettivo era di colpirla nel cuore e ci siamo riusciti - ha detto il pentito rispondendo alle domande dei pm Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi - oggi dopo 17 anni vengo come collaboratore di giustizia, pentito, e chiedo perdono. Un perdono che può non essere accettato, può essere strumentalizzato, ma dovevo farlo».
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«Sono il dottor Bruno Contrada, ex dirigente generale della Polizia di Stato, nato a Napoli il 2 settembre 1931, domiciliato in Palermo, in atto in detenzione domiciliare per espiazione pena, a seguito della nota sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Palermo, perché condannato per concorso esterno in associazione mafiosa (arrestato il 24 dicembre 1992, condanna divenuta definitiva il 10 maggio 2007)».
Bruno Contrada non può parlare con i giornalisti, né rispondere al telefono e nella sua casa di Palermo, dove per ragioni di salute sta scontando dal 2008 la condanna a 10 anni di reclusione, non può ricevere visite se non quelle del suo avvocato. Ma una settimana fa ha deciso di rompere il silenzio, che durava da anni, presentando un esposto contro il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, Antonio Ingroia. L’ex dirigente della Polizia di Stato, ed ex numero tre del Sisde in Sicilia negli anni delle stragi di mafia, punta il dito contro le pagine del libro “Nel labirinto degli dei: storie di mafia e di antimafia” scritto dallo stesso magistrato palermitano e dato alle stampa nel novembre scorso da “il Saggiatore”.
Contrada contesta un passaggio che lo riguarda direttamente, quello dove il pm Ingroia ricorda l’interrogatorio, da lui condotto, del collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino, il falso pentito “chiave” nei processi sulla strage di Via D’Amelio, condannato in via definitiva a 18 anni dopo essersi autoaccusato di aver procurato la Fiat 126 che fu imbottita di tritolo per uccidere Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta. In quell’interrogatorio, narrato a partire da pagina 81, è proprio Scarantino a tirare in ballo Contrada. ...continua a leggere "Contrada vs Ingroia"