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Le “facce da mostro” che giravano in Sicilia negli anni delle stragi di mafia erano due: un discusso agente segreto, con un piede nello Stato e l’altro nelle cosche, e un dipendente regionale vicino all’ex sindaco Ciancimino, che suo figlio Massimo avrebbe già identificato. Entrambi sarebbero morti: il primo nel 2004, il secondo due anni prima. Due ombre, tanti sospetti e solo poche certezze, in quanto soltanto uno di loro, il dipendente regionale, è stato recentemente identificato, attraverso una foto. A dare un nome a quel volto, con quella vistosa cicatrice sulla guancia destra, è stato, per l’appunto, Massimo Ciancimino, il figlio del boss don Vito, quello del “papello” e della trattativa tra Stato e mafia (leggi l’intervista). Due volti sfigurati, inguardabili e indimenticabili, rimasti impressi nella memoria di decine di testimoni e di cui - a distanza di vent’anni da quella stagione di sangue - si sa ancora davvero poco. ...continua a leggere "La doppia pista su “faccia da mostro”"

Un’ombra. Di lui si dice che potrebbe essere ancora in servizio, ma anche che sarebbe morto di tumore. Aveva, o forse ha ancora, il viso deforme: un volto sfigurato, orrendo, paragonabile solo a quello di un mostro. “Faccia da mostro”, così lo chiamano giù in Sicilia, e così lo ha chiamato recentemente anche Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, don Vito, quello del “papello” e della trattativa tra Stato e mafia su cui si indaga ancora. Dopo il super latitante Matteo Messina Denaro, “faccia da mostro”, oggi è il ricercato numero uno.
L’innominabile. Era un agente del Sisde, il servizio segreto civile (oggi Aisi, ndr). Era a Palermo. Nelle storie di mafia, “faccia da mostro”, c’è dentro fino al collo e a quanto pare gli inquirenti, che da anni lo cercano, non lo hanno ancora identificato. Forse a quel volto, di cui esisterebbe solo un confuso identikit, non si potrà mai dare un nome, perché quando qualcuno tenterà di svelarlo, come accade spesso, il segreto coprirà per sempre la sua identità. Il suo nome, anzi il suo soprannome, - legato a quelle inconfondibili caratteristiche del volto dovute, almeno così pare, a un tumore e a una lunga serie di interventi chirurgici - salta fuori la prima volta nell’89. Nessuno lo nomina, la sua identità non è mai stata svelata sulla stampa, ma tutti parlano di quell’uomo misterioso che, come un’ombra, entra ed esce dalle oscure vicende siciliane.
L’Addaura. La prima a parlare di lui è una donna che poco prima del ritrovamento di un ordigno vicino la villa di Giovanni Falcone, all’Addaura, lo notò da quelle parti, dentro un’auto, insieme a un altro individuo. La donna se lo ricorda proprio perché il suo volto era inguardabile. Era il 21 giugno 1989, Falcone aveva affittato per il periodo estivo quella villa sulla costa palermitana. Intorno alle 7.30 tre agenti di polizia trovano sugli scogli, a pochi metri dall’abitazione, una muta subacquea, un paio di pinne, una maschera e una borsa sportiva blu contenente una cassetta metallica. Dentro c’è un congegno a elevata potenzialità distruttiva composto da 58 candelotti di esplosivo. La bomba non esplode, l’attentato fallisce. Qualche ora dopo, in quella villa, Falcone doveva incontrare due colleghi svizzeri: il pm Carla del Ponte e il giudice istruttore Claudio Lehmann, in Sicilia per le indagini sul riciclaggio di denaro. La bomba era per loro. “Faccia da mostro”, dice la testimone, quella mattina era lì.
Il confidente. Ne parla anche la “gola profonda” Luigi Ilardo, il mafioso, cugino e braccio destro del boss Giuseppe “Piddu” Madonia, che nel ‘95 aveva messo sulle tracce di Bernardo Provenzano i carabinieri, ma un anno dopo gli tapparono per sempre la bocca. Ilardo confidò al colonnello Michele Riccio del Ros che a Palermo c’era un agente segreto con la faccia da mostro che frequentava strani ambienti, uno chiacchierato. Il confidente, parlando dello strano agente segreto, disse agli inquirenti: «Di certo questo agente girava imperterrito per Palermo. Stava in posti strani e faceva cose strane».
Le morti sospette. “Faccia da mostro” è legato anche a una lunga scia di sangue e di strane morti, come l’omicidio dell’agente di polizia Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castellucci, avvenuto il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Agostino dava la caccia ai latitanti, pare anche per conto del Sisde, e sembra avesse informazioni sul fallito attentato all’Addaura. Le indagini non hanno mai chiarito, fino in fondo, come sono andate le cose, però sembra che l’agente, poco prima di morire, avesse ricevuto in casa una strana visita, quella di un collega con la faccia deforme. A dirlo è suo padre, Vincenzo, che riferì agli inquirenti che un giorno notò “faccia da mostro” vicino l’abitazione del figlio. Vuole giustizia e cerca la verità da anni, Vincenzo Agostino, non si taglia la barba dal giorno in cui gli hanno ucciso il figlio e la nuora, che era incinta di cinque mesi. Per lui, quell’uomo, era l’inguardabile: «Quell’ uomo è venuto a casa mia, voleva mio figlio. Quel tizio non è soltanto implicato nei fatti di Capaci e di via D’Amelio, ha fatto la strage in casa mia, quella in cui sono morti - disse ai magistrati il padre di Agostino - mio figlio Nino, mia nuora e mia nipote. Due persone vennero a cercare mio figlio al villino. Accanto al cancello, su una moto, c’era un uomo biondo con la faccia butterata. Per me era faccia di mostro». Un altro pesante sospetto lega “faccia da mostro” a un altro delitto, quello dell’ex agente di polizia Emanuele Piazza. Il suo nome in codice era “topo”, collaborava con il Sisde, era amico di Nino Agostino, ma non era ancora un effettivo. Figlio di un noto avvocato palermitano, era un infiltrato e dava la caccia ai latitanti quando, il 15 marzo 1990, scompare nel nulla. Molti anni dopo si saprà che fu “prelevato” con un tranello dalla sua abitazione da un ex pugile, vecchio compagno di palestra, portato in uno scantinato di Capaci, ucciso e sciolto nell’acido. Cercava la verità sulla morte del suo amico Antonino Agostino, forse l’aveva anche trovata, e anche lui sapeva qualcosa sull’Addaura.
La trattativa. Poi, più recentemente, è Massimo Ciancimino, a parlare dell’agente segreto inguardabile e innominabile. Ciancimino junior, però, è in grado di fornire ai magistrati di Caltanissetta e Palermo - quelli che indagano tuttora sugli attentati del ‘92 e sulla trattativa tra Stato e mafia - anche nomi e numeri di cellulare di agenti in contatto con il padre. Quei riferimenti li tira fuori dalle agende del padre, ricche di numeri che contano. Parla di un certo “Franco” e di “Carlo”, ma forse erano i nomi di copertura di un solo 007. Ma Massimo Ciancimino conferma ai magistrati anche che l’uomo con la faccia di un mostro era in contatto con suo padre da anni, ma non ne conosce l’identità. Conferma pure che i contatti con gli spioni sono proseguiti anche dopo la morte del padre e, più di recente, quando decise di consegnare ai magistrati il famoso “papello” con le richieste di Cosa nostra.
L’agenda rossa. Ancora ombre, il 19 luglio 1992, pochi minuti dopo l’esplosione dell’autobomba che ha ucciso Paolo Borsellino e i suoi angeli custodi. Le istantanee sono diverse e ritraggono numerosi agenti in borghese che si muovono in quella terribile scena. Uno di loro - uno dei pochi identificati analizzando quei fotogrammi - era il tenente colonnello dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, accusato (e poi prosciolto) di aver sottratto l’agenda rossa, quella dove il giudice annotava ogni cosa e che teneva sempre con sé. Quell’agenda è scomparsa, l’ufficiale non l’ha rubata, pur essendo stato fotografato con in mano la borsa del giudice. Dentro quella borsa, di fatto, l’agenda non c’era e molti di quei volti fotografati in via D’Amelio non hanno ancora un nome, compreso quello di un altrettanto misterioso personaggio che sembra allontanarsi da quell’inferno tenendo qualcosa sotto la giacca.
Le indagini. “Faccia da mostro”, in Sicilia, dopo Matteo Messina Denaro, oggi è il ricercato numero uno. Lo cercano i magistrati di Palermo e Caltanissetta, che il 18 novembre scorso hanno chiesto ai vertici del Dis la documentazione sugli eccidi di Capaci e via D’Amelio e informazioni su alcuni agenti sotto copertura che potrebbero avere avuto un ruolo nel fallito attentato all’Addaura e sugli omicidi di Emanuele Piazza e Nino Agostino.

Il Punto - di Fabrizio Colarieti - 20 gennaio 2010 [pdf]

dc9_ustica1_NPALERMO − A quasi trent’anni dalla sciagura aerea del Dc9 Itavia, inabissatosi il 27 giugno 1980 a nord di Ustica, la speranza dei familiari degli 81 tra passeggeri e membri dell’equipaggio, che in quel disastro persero la vita, è appesa agli esiti di un processo civile in corso da quasi due anni a Palermo (l’ultima udienza è del 26 novembre scorso). Ancora una volta lo Stato si ritrova a interrogare se stesso sull’affaire Ustica, dopo che la Cassazione, nel 2007, ha assolto gli ultimi imputati nel processo penale sui presunti depistaggi negando ogni risarcimento. Questa volta davanti alla giustizia sono stati chiamati a rispondere, da un folto gruppo di familiari delle vittime, i ministeri della Difesa e dei Trasporti. Perché i due dicasteri - secondo gli eredi che oggi chiedono allo Stato un risarcimento che sfiora i 100 milioni di euro - non avrebbero garantito adeguate condizioni di sicurezza al volo. I vertici dei due ministeri sarebbero stati a conoscenza, prima, durante e dopo la sciagura, che il tratto di aerovia percorso quella sera dal Dc9, che andava da Bologna a Palermo, era scarsamente vigilato dai radar della Difesa. Un buco nero, a metà strada tra Ponza e Ustica, chiamato “punto Condor “, dove quella notte si consumò la tragedia. Una ricostruzione allineata con le conclusioni a cui giunse, dopo nove anni di istruttoria, il giudice Rosario Priore: “Il Dc9 fu vittima - scrisse nel 1999 - di un’azione militare di intercettamento messa in atto, verosimilmente, nei confronti dell’aereo che era nascosto sotto di esso”. L’Itavia 870 - conclusero i periti - rimase vittima fortuita: colpito da un missile o di una near collision con un altro velivolo. Quella notte intorno al Dc9, lo dicono i tabulati di Ciampino, c’erano in volo aerei militari di almeno quattro Paesi (Italia, Libia, Stati Uniti e Francia). Per Priore quell'azione fu propriamente “un atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati confini e diritti”. Con queste motivazioni furono processati gli allora vertici dell’Aeronautica che - sempre secondo l’accusa - nell’immediatezza dei fatti tennero nascoste al Governo tali gravi evidenze. Quel processo si è concluso nel gennaio del 2007, con la Cassazione che ha definitivamente assolto, “perché il fatto non sussiste”, i generali, Lamberto Bartolucci, all’epoca capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, e il suo vice, Franco Ferri. A quel processo erano arrivati in settanta, dovevano rispondere di reati come la falsa testimonianza e il favoreggiamento, ma alla fine, a colpi di prescrizioni, gli imputati sono rimasti solo in due. Poi le assoluzioni, per mancanza di prove, e in ultima battuta l’intervento del Governo che ha ammorbidito il reato di alto tradimento. Sulla scena si sono aggiunte le recenti dichiarazioni rilasciate alla stampa dal presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, secondo il quale il Dc9 fu abbattuto per errore da un caccia francese. Di questa circostanza, sempre secondo Cossiga, ne erano a conoscenza i nostri Servizi e l’allora sottosegretario Giuliano Amato. Dopo un braccio di ferro durato mesi, il 15 dicembre 2008, il tribunale di Palermo ha sentito l’ex capo dello Stato, che ha confermato di aver appreso dall’allora direttore del Sismi, Fulvio Martini, oggi scomparso, che “ad abbattere il Dc9, per mero errore, sarebbe stato un aereo dell’Aviazione Marina Francese decollato da una portaerei al largo del sud della Corsica”. Cossiga ha precisato anche che quel caccia aveva in realtà come missione “l’abbattimento di un aereo che trasportava Gheddafi” e che il generale Giuseppe Santovito (direttore del Sismi prima di Martini) lo informò che i Servizi avevano salvato il leader libico da quell’attentato. Di questa circostanza sarebbe stato informato anche Amato, però, quest’ultimo, nega davanti al giudice di Palermo, precisando che “è vero però che negli ambienti che si occupavano della questione circolavano queste voci come, del resto, altre”. Tuttavia fu proprio Amato nel 2000, in qualità di Presidente del Consiglio, a tentare di spingere la Francia a rispondere a una dozzina di rogatorie, promosse da Priore, dove si chiedevano informazioni in merito a quanto avevano registrato i radar francesi nel Mediterraneo, ai possibili velivoli decollati da Solenzara e sull’esatta posizione delle portaerei Clemenceau e Foch. Le parole di Cossiga e Amato sono tuttora oggetto anche di un’inchiesta della Procura di Roma. “L'unica verità scampata ai depistaggi - dichiara a Il Punto, Daniele Osnato, uno dei legali dei familiari delle vittime in causa a Palermo - è quella che l’aerovia civile percorsa dal Dc9, l’Ambra 13, fosse intersecata dall’aerovia militare francese Delta Whisky 12. Tale intersezione era meglio nota negli ambienti militari come punto Condor. C’era una situazione complessa: navi lanciamissili, caccia in assetto operativo non identificati. Dalla base francese di Solenzara, poi, decollarono diverse coppie di Mirage sino alle 22. Questo contesto altro non è che la realtà, chiara e semplice, che non può certamente essere più negata, tanto più da chi ha precisi obblighi verso i cittadini. Per chi, come i parenti delle vittime, - prosegue l’avvocato Osnato - è portatore di una speranza di “verità” si è sempre prospettato, da parte di chi la conosce, la sconsolante prospettiva della dimenticanza e del silenzio. Il “muro di gomma” è stato fatale per tutti, e tutti ne sono rimasti invischiati, mentitori e sinceri. L’unica differenza tra queste vittime e quelle rimaste in fondo al mare è che per i primi è stata concessa una scelta e che per i secondi la scelta, la chance, è stata negata. Perché di ciò si tratta ed è di ciò che tratta il processo civile avviato a Palermo. In questa sede i parenti chiedono un accertamento delle responsabilità di chi, come Istituzione, ha impedito di percorrere la via della verità. Si tratterà di chiarire che senz’altro questi ministeri si sono resi colpevoli di un concorso colposo in strage - conclude l’avvocato - che merita un esemplare risarcimento, anche se la vicenda non potrà certo trovare pace con il riconoscimento di un credito”. A Palermo sono tuttora pendenti quattro procedimenti avviati dai parenti delle vittime e nel maggio 2007 lo stesso tribunale ha già condannato i due ministeri a risarcire 980mila euro a 15 eredi.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 3 dicembre 2009 [pdf]

Gli italiani non hanno diritto di conoscere la verità sul caso Ustica. E così anche i familiari degli ottantuno passeggeri del volo Itavia che la sera del 27 giugno 1980, mentre andava da Bologna a Palermo, s'inabissò nel Tirreno. Loro, i passeggeri, affrontando quel volo da inconsapevoli vittime della Ragion di Stato, non sapevano di certo che non sarebbero mai atterrati e che ventotto anni dopo la loro fine sarebbe stata ancora un mistero.Quella notte le tenebre hanno inghiottito, senza appello, la loro vita, la dignità di questo Paese e la verità su un caso che ora due magistrati della procura di Roma tenteranno di riaprire. Quella notte è successo qualcosa che mai nessuno avrebbe dovuto sapere. Sapevano e sanno, tuttavia, solo coloro che dovevano proteggere il volo di quell'aereo civile e che invece sono diventati, per sempre, i custodi di un segreto inconfessabile. ...continua a leggere "Ustica, ventotto anni dopo"