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Una pioggia di missili Tomahawk si è abbattuta su Tripoli aprendo un nuovo conflitto a due passi dalle nostre coste e di colpo, guardando quelle immagini, il nastro della storia sembra riavvolgersi velocemente. E se domani Gheddafi tornasse al potere? Un’ipotesi remota che aprirebbe (anche in casa nostra) una sanguinosa caccia ai dissidenti - senza confini né regole - a cui abbiamo già assistito molto tempo fa.
Dentro lo scatolone di sabbia, dove un popolo oppresso da quarantadue anni attende la caduta del suo Rais, tutto torna a mostrarsi come trent’anni fa. Era il 1980 e Gheddafi si era già attaccato sulle spalline i gradi da colonnello. Era già lo stravagante dittatore beduino che nel tempo abbiamo imparato a conoscere e lo spregiudicato tiranno dalle sette vite con cui, oggi come allora, abbiamo sempre fatto buoni affari. Nel 1980, quando la Francia di Giscard d'Estaing gli tese un agguato nel cielo di Ustica (che costò all’Italia l’abbattimento del Dc9 Itavia), il suo regime era già in piedi da undici anni, e lui, il Muammar, era già un nostro partner commerciale da servire e riverire. E il 1980 è anche l’anno in cui la dissidenza libica in Europa, ma in particolare in Italia, subisce colpi durissimi da parte del regime gheddafiano.
La caccia al dissidente inizia tra marzo e aprile. Il 27 aprile è lo stesso Gheddafi, nel corso di una cerimonia presso l’Accademia Militare di Tripoli, a lanciare un ultimatum per il rimpatrio dei fuoriusciti: “tornate in Libia o vi uccidiamo tutti”. La data ultima per il rientro in Patria di tutti i dissidenti residenti all’estero è l’11 giugno 1980, giorno del decimo anniversario della cacciata degli americani dalla base libica di Wheelus Field. “Chi non torna sarà giustiziato”, afferma il 3 maggio, nel corso di una conferenza stampa tenuta a Roma, un membro del Comitato Popolare della Rappresentanza libica. A fine maggio il capo dell’Ufficio Popolare libico per le rappresentanze diplomatiche estere, Ahmed Shahati, convoca gli ambasciatori della Comunità europea accreditati a Tripoli e formalizza la richiesta del suo Governo: “ogni oppositore dovrà essere consegnato, in caso di rifiuto ci saranno pesanti ritorsioni”. E’ solo una formalità, perché Tripoli da almeno due mesi ha già sguinzagliato in mezza Europa decine di emissari del suo spietato Servizio di sicurezza. La loro missione è mostruosamente chiara: convincere i dissidenti a rientrare in Libia o, in caso di rifiuto, eliminarli fisicamente. E’ l’inizio di una guerra tra spie e oppositori.  ...continua a leggere "Muammar Gheddafi: very strong measures"

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Che Gheddafi sappia la verità sull’affaire Ustica è un dato incontrovertibile, non fosse altro perché quella notte nei cieli del basso Tirreno – lo ha ripetuto lui stesso decine di volte – il vero obiettivo (degli americani e dei francesi), era proprio lui e non il Dc9 dell’Itavia. E trentuno anni dopo quella tragedia, mentre il regime del Muammar si sgretola su se stesso, riemergono inquietanti particolari sui rapporti tra Italia e Libia, sulla vicenda di quel Mig caduto sulla Sila, forse lo stesso giorno in cui fu abbattuto il Dc9, e sull’atteggiamento, assai sospetto, del Governo italiano, del Sismi e degli allora vertici della Fiat. Cosa c’entra la più grande azienda automobilistica italiana, con Ustica e con Gheddafi, lo spiega oggi Cesare Romiti, l’uomo che guidò i vertici del Lingotto dal ‘74 al ’98. «Gianni Agnelli informò George Bush senior, che allora era alla guida della Cia: ne ricevette una serie di raccomandazioni e il via libera. Poi, insieme, andammo da Carlo Azeglio Ciampi, e ricevemmo la benedizione anche del Governatore della Banca d'Italia». Queste le sue parole, in un'intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scorso 23 febbraio, con cui racconta le «trattative lunghissime, durate quasi due anni» per l'ingresso della Libia nell'azionariato Fiat. Nei dieci anni della Libia in Fiat, con circa il 10 per cento, dice Romiti, non ci fu «mai un'interferenza, mai una richiesta. Si sono sempre comportati come banchieri svizzeri», gli accordi del resto erano chiari: «Non sarebbero mai entrati nella gestione, non avrebbero mai avuto notizie sensibili». Ma Romiti ricorda al Corriere anche un’altra cosa, che non può passare inosservata: narra di una telefonata ricevuta da Regeb Misellati, uno dei due consiglieri in Fiat della Libyan Arab Foreign Investment Company (Lafico), l'organizzazione pubblica libica, controllato al 100 per centro dal Tesoro, che si occupava degli investimenti internazionali e di gestire i proventi petroliferi. In quella telefonata Misellati, ex impiegato della filiale di Tripoli della Barclays Bank, poi diventato uno dei finanzieri di punta di Gheddafi, chiese a Romiti «una mano per recuperare i resti dell'aereo». Il presidente della Fiat, oltre che con Misellati, parlerà della tragedia del volo Itavia anche con un altro consigliere di Lafico, Abdullah Saudi: «Li avevo sentiti, naturalmente, subito dopo l'incidente di Ustica. Incidente, poi... Temevamo tutti - afferma ancora Romiti - fosse stato un missile. Uno sconfinamento, una battaglia segreta nei cieli, l'arma che parte e colpisce l'aereo civile. Ne parlammo. Mi rassicurarono. So che qualche settimana più tardi si scoprì il "caccia" libico caduto in Calabria. Misellati mi richiamò». ...continua a leggere "La Fiat di Cesare Romiti e il mistero del Mig libico"

Solo lui conosceva quanti e quali erano gli indicibili segreti di Stato che, alla fine, si è portato fin dentro la tomba. Francesco Cossiga, l’ex tutto, che non a caso in Senato sedeva nello scranno numero 007, se n’è andato a modo suo, il 17 agosto, quasi sbattendo la porta in faccia a tutti e lasciando, all’Iddio, il compito di proteggere l’Italia. Del resto in quale altro modo interpretare la scelta di tenere fuori dal suo funerale tutte le cariche dello Stato, nessuna esclusa. Tranne pochi altri, come loro, quelli senza volto e senza nome: i suoi fedeli figliocci dei corpi speciali.

E i segreti? I segreti - cioè tutto quello che ancora non sappiamo su più o meno mezzo secolo di storia repubblicana - se li è portati via con sé. Forse, visto il soggetto, quelli non li ha rivelati proprio a nessuno: perché un segreto di Stato è tale, è tale deve rimane. O magari, come amano pensare in rete gli amanti della dietrologia, quelle quattro lettere indirizzate alle più alte cariche dello Stato contenevano anche quelli. Oppure i suoi fedeli “apparati” dell’intelligence, un attimo dopo, su sua precisa indicazione, hanno raccolto il suo archivio e se lo sono portato via. Perché, spie e segreti, erano sì la sua passione, ma anche la sua ossessione. ...continua a leggere "Storia di un picconatore"